La Val Dragone nella storia |
![]() |
Documenti |
Colonna in marcia da Nikitovka
a Nikolayewka, 26 gennaio 1943.
(Archivio Corti Aldo).
Il
mattino del 26 gennaio 1943, dopo 9 giorni di marcia e 25 battaglie di
sfondamento e di retroguardia, gli Alpini giunsero all’appuntamento con lo
scontro finale e definitivo, quello di Nikolajewka.
I reparti alpini ancora efficienti cercarono di sfondare, con gravissime
perdite, lo sbarramento russo situato sul terrapieno della ferrovia che
precludeva l’accesso al paese.
“Quella maledetta mattina eravamo ancora a Nikitovka, racconta il reduce Aldo
Corti, località a 15 km da Nikolayewka.
Con i miei commilitoni del Gruppo d’artiglieria Valcamonica avevamo trovato
un’isba dove avevamo trascorso la notte per trovare un po’ di tepore, ma
d’improvviso all’alba, noi 14 alpini fummo circondati dalla fanteria russa e
senza armi se non quelle inutili bombe a mano, ci demmo alla fuga da una porta
secondaria.
Per fortuna si era accorto dell’arrivo dei sovietici l’artigliere alpino
Albicini che era uscito un’istante prima dall’isba, e diede l’allarme; ma
purtroppo Tolari Adamo di “Lac-seula” (Gusciola) per salvare la sua slitta
trainata da una cavalla, si attardò e di lui si perse ogni traccia.
![]() |
Opit, 17 gennaio 1943. Aldo Corti è il primo a sinistra di spalle col mulo che porta la radio del gruppo. (Archivio Corti Aldo). |
Nella confusione della fuga, io, Bortolo Serradimigni, Pasquale Corti, e
Albicini Luigi da Casla, Egidio Coriani da Muntfiurin, e gli altri alpini
bergamaschi e bresciani ci orientammo verso ovest seguendo la colonna in fuga
che si orientava con il sorgere e calar del sole come ci avevano insegnato i
nostri ufficiali.
Quell’azione della fanteria russa fu probabilmente più un atto di disturbo di
retroguardia che un attacco vero e proprio, tant’è che conquistata Nikitovka,
non ci rincorsero.
Da sbandati quali eravamo, arrivammo finalmente sulla collina di Nikolayewka.
Tutta la colonna, migliaia e migliaia di alpini con alcuni sbandati ungheresi e
tedeschi diventò il bersaglio delle armi controcarro, delle artiglierie e
dell’aviazione sovietica che sparavano dritto in mezzo alla massa di soldati
accalcati e facendone scempio.
In quei momenti di disperazione vedevamo dall’alto i pochi reparti efficienti
che si dissanguavano nel cercare di espugnare il terrapieno della ferrovia e tra
un’esplosione e l’altra cercavamo di ripararci dietro alle slitte che saltavano
in aria dilaniando uomini e muli.
Ormai al calar della sera, conscio che la massa di sopravvissuti non poteva
sopravvivere ad una notte all’addiaccio con i russi che sparavano di fronte e
ormai anche da dietro, il generale Reverberi comandante della Tridentina, passò
all’azione e salito sull’unico superstite semovente tedesco, gridò “Tridentina,
Tridentina Avanti..”.
L’avranno udito forse solo alcuni a pochi metri, ma tutti i veterani di questa
battaglia hanno voluto sentirlo, l’alternativa era la fine, la morte nella
steppa congelata.
In quel preciso istante, saranno state le 17, ci lanciammo all’assalto, una
massa gigantesca di uomini rotolò giù dalla collina verso quel terrapieno,
incuranti degli enormi vuoti che si aprivano tra le nostre fila. Mi ero appena
allontanato dalla slitta del comasco Machìna, quando un colpo di mortaio cadde
proprio su di noi, facendo a pezzi la slitta, il mulo e il povero commilitone.
Su quella slitta trasportavo ancora i miei ferri da barbiere e la mia
inseparabile macchina fotografica “Super Ikonta Zeiss”, ma non ebbi certo
l’occasione né la voglia di fermare la mia corsa disperata in quel frangente.
Io e Coriani Egidio arrivammo col fiato corto ai piedi del famoso terrapieno, e
in mezzo alle raffiche di mitragliatrici nemiche incontrammo il buon Giulio
Guigli da “Boccasseul” che mentre ci riparavamo dietro a cassette di munizioni
vuote esclamò “Addio Nita, á se vdèm po’ in Paradis...”.
Proprio quell’istante fu per noi uno dei più terribili, eravamo circondati da
morti e feriti, non c’era via di fuga, o riuscivamo a conquistare quel
terrapieno oppure eravamo in un imbuto fatale.
Il tunnel era l’unico mezzo per passare al di là del terrapieno, e noi sbandati
senza ormai più armi eravamo in balia dei russi che ci sparavano dall’alto.
I Battaglioni Morbegno, Valchiese, Verona, Tirano, Vestone e Edolo si
susseguirono in furiosi assalti all’arma bianca sui lati della cittadina, e
infine, i Russi, sotto l’impeto di questa massa che premeva da più direzioni, si
sono sganciati lasciando sul terreno centinaia di morti e feriti.
A quel punto riuscimmo ad entrare in città, a trovare un po’ di cibo e le isbe
necessarie per continuare a sopravvivere ancora qualche giorno…”
Dopo dieci ore di combattimento, alle 18 e 30 uscirono attraverso il varco
aperto 13.420 uomini del corpo d’armata Alpino. Erano 61.155 quando avevano
lasciato le rive del Don 10 giorni prima.
Tale impresa, difficile da descrivere a fondo, ha fatto meritare agli Alpini la
citazione nel Bollettino N.630 del comando supremo russo, emesso da radio Mosca
ai primi di febbraio 1943.
Annunciando il travolgimento delle forze dell’asse sul fronte del Medio Don e la
caduta di Stalingrado, precisò: “ Soltanto il Corpo d’Armata Alpino deve
considerarsi imbattuto in terra di Russia”.
Ma la via del ritorno in patria fu ancora molto lunga e pena di insidie…