La Val Dragone nella storia | |
Emigrazione
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La vita degli abitanti del Dragone dopo l'unità d'Italia
Copertina del numero 1 de
"Il Montanaro", il periodico mensile pubblicato a Pievepelago tra il 1883 e il 1889
Si legge su "Il Montanaro", periodico di Pievepelago, del 1 novembre1883:
"…E’ una vita ben dura quella ch’esso trascorre (l’operaio montanaro) (…) giovanissimo ancora appena che le forze gli bastano comincia a lavorare e in età di 14 o 15 anni ad emigrare.
Coll’avvicinarsi della stagione autunnale non essendo possibile lavorare più oltre su questi monti è costretto a rivolgersi altrove in cerca di lavoro per ricavare di che sostentare sé e la famigliola. Quale stranezza della natura, mentre da al montanaro sì grande e forte affetto pel suo paese, pel suo umile casolare, quasi a porre a dura prova tale affetto lo costringe ad emigrare e per così lungo tempo.
Nei mesi di ottobre e novembre comincia l’esodo doloroso, e abbandonando la famiglia con 40 o 50 lire in tasca di cui 30 o 40 gli abbisognano pel viaggio, emigra, alla ventura generalmente, in cerca di lavoro; va in Corsica, in Sardegna (…) va in Africa e in Turchia; colà poi si riunisce con altri 10 o 12 e forma una compagnia con un capo, e lavora 12 o 14 ore, abita in baracche costrutte da sé con rami e foglie d’albero, dorme quasi sempre vestito su un mucchio di foglie e paglia su cui stende lo stesso sacco che al giorno gli servì per lavorare e che è ancor madido di sudore; e quando la sera stanco ritorna alla sua baracca deve pensare a farsi da mangiare; e tutto ciò per risparmiare qualche soldo di più da mandare alla famiglia che bisognosa l’attende. E’ questa la vita di ogni giorno che dura per 8 o 9 mesi finchè arriva finalmente il tanto desiderato giugno, ed allora fa i conti di cassa e se vede che ha un discreto risparmio invita la moglie, la madre, la sorella ad andare ad incontrarlo per lo più a Livorno ove sbarca e dipoi insieme vanno alla Madonna di Montenero, gita che le sue donne in qualche circostanza più o meno critica avevano fatto voto di fare, e ritorna al nativo paese, ed a riabbracciare l’amata famiglia che trova quasi sempre cresciuta d’un nuovo marmocchio.
Riporta a casa quale risparmio del suo onesto lavoro 100, 200, 300 lire circa di cui però dopo pochi giorni poche gliene restano, poiché ha dovuto pagare i debiti fatti dalla famiglia durante la sua assenza, per vitto che è per lo più di polenta di frumentone o di castagne, o di pane di segale e frumento, e restituire il denaro preso a prestito per emigrare. Si riposa 10 o 15 giorni, indi si dà ai lavori che possono offrire i nostri luoghi, e molte volte per lavorare si deve allontanare alcune miglia dal suo paese ove non ritorna che il sabato sera. E così passa la stagione estiva, finchè giunge l’autunno, riparte di nuovo, e ciò succede ogni anno. (…) La condizione dei nostri operai è molto variata in questi ultimi 20 anni: sotto il cessato governo non s’avea emigrazione, solo qualcuno passava nella limitrofa Toscana e nelle maremme, qualche miserabilissimo andava tutto al più sino in Corsica; ma non restavano assenti che 5 o 6 mesi. Col crescere della popolazione e quindi dei bisogni, coi cresciuti mezzi di trasporto, con l’essersi diminuite di tanto le distanze, con l’essere venute meno certe fiscalità burocratiche, ha potuto estendersi di molto.
(…) Non si creda che tal modo di vivere cessi così presto, esso dura per 40 o 50 anni, e così questo operaio è costretto a passare lontano dalla famiglia due terzi della vita. (…) Né si creda ancora che dopo tanti anni di lavoro questo povero possa un dì viver quieto del compenso dei suoi sudori; no, no, ciò succede rare volte; esso, finchè ha forze, lavora, emigra, ma giunge anche per esso la vecchiaia, l’indebolimento delle forze, non può più guadagnare che poco, esso che non viveva che con il lavoro dell’oggi, e delle sue braccia, soffre, sente i bisogni di prima necessità, non ha di che cibarsi, ricorre allora al figlio, ai parenti, ma essi pure sono miserabili e con numerosa famiglia, quindi ben poco gli possono dare, e tante volte il figlio senza pensare che anche per esso verrà il suo turno, istigato dalla moglie nega al padre un tozzo di pane e magari lo scaccia di casa. Allora si vede il vecchio ed onesto operaio, con ripugnanza sì, ma costretto dal bisogno, stendere la mano callosa dal lungo lavoro per avere di che sfamarsi, e qualche volta è avvenuto che non avendo dove alloggiare, vecchio, malaticcio, approfittando della munificenza del Municipio, è andato ad alloggiare in carcere…, ed ecco che gli estremi si toccano, l’uomo onesto e laborioso muore là dove non doveva esserci che il ladro, l’ozioso. Frequente è pure il caso di operai emigrati che si ammalano, restano mutilati; ed allora si vedono famiglie oneste costrette a soffrire la fame e chiedere l’elemosina. Ecco qual’è il fine che attende il nostro operaio. Esso non ha nemmeno la consolazione di dire: "Morirò all’ospedale". Ciò che ci dà pensiero non è l’emigrazione che secondo noi, per la generalità è anzi una valvola di sicurezza, e nei nostri luoghi una necessità si ma un bene; è la fine che attende questi poveri disgraziati". Nei primi decenni del ‘900, l’amministrazione comunale di Montefiorino mostrava scarso impegno nel venire incontro alle necessità delle frazioni più lontane e si faceva viva soprattutto per la riscossione delle imposte e la consegna delle cartoline di precetto.
Dopo la guerra del 1915-1918, vennero aperte in tutte le frazioni
dell’Appennino scuole elementari.
Le lezioni spesso si svolgevano in locali di fortuna, messi a disposizione da
privati o parroci, e, per la mancanza di personale qualificato, non sempre erano
tenute da maestri ma anche da persone non diplomate ma che possedessero una
sufficiente cultura.
Gli alunni, quasi sempre di classi diverse, venivano affidati ad un solo
insegnante.
Terminata la scuola elementare, che di solito non si protraeva oltre la terza
classe, i ragazzi si univano ai genitori nel lavoro dei campi. Pochi riuscivano
a continuare gli studi, soprattutto per motivi economici e per la necessità di
doversi allontanare da casa per mesi. L’alfabetizzazione della popolazione non
fu completa né rapida. Analfabeti erano particolarmente gli anziani, ma anche
molti ragazzi che, per lavorare nei campi o pascolare il bestiame, non potevano
frequentare la scuola.
Durante il ventennio fascista l’istruzione non migliorò un gran che,
particolarmente nei paesi più disagiati. Sia nella Val Dragone che nel resto
dell’Appennino Modenese erano praticamente assenti altri tipi e gradi di scuola.
Carenti erano le condizioni igienico-sanitarie. Medici ed ostetriche stipendiati
dal Comune erano pochi e presenti solo nei centri più importanti e raggiungibili
con difficoltà, data la mancanza di mezzi di trasporto e di comunicazione
veloci. Poche e distanti erano anche le farmacie. Molto difficile era reperire
un medico in breve tempo e procurarsi farmaci, o peggio, in caso di malattie
gravi raggiungere un ospedale (Pavullo, Sassuolo o Modena). Molte vittime si
contarono nel 1918 in seguito all’epidemia della cosiddetta febbre spagnola.
Scarse erano in genere le condizioni igieniche nelle abitazioni, carenti gli
acquedotti pubblici e le fognature (spesso gli scarichi dei lavandini scorrevano
liberamente per le strade), per non parlare delle linee elettriche e della
illuminazione pubblica. Le stanze di sera venivano illuminate utilizzando
candele, lampade a petrolio o a carburo. Nel 1951, nel Comune di Montefiorino,
erano circa un migliaio le abitazioni sprovviste di acqua corrente e di servizi
igienici.
Uno dei problemi più pesanti, soprattutto per le frazioni più lontane dal
capoluogo, era la viabilità. C’è ancora chi si ricorda le faticose e lunghe
camminate fatte per raggiungere il posto di lavoro, gli uffici comunali, il
medico condotto, attraverso strade che più spesso erano vere e proprie
mulattiere. Le frazioni sulla destra del Dragone, poi, erano particolarmente
disagiate in quanto le strade più importanti per collegarsi con la pianura o la
Toscana erano sull’altro versante della vallata.
Alla fine del 1922 non erano ancora stati costruiti i tronchi stradali
Savoniero-Monchio e Savoniero-Palagano-Boccassuolo. La strada che collega
Monchio con il ponte sul fiume Secchia fu costruita dopo la fine della seconda
guerra mondiale.
La fonte principale di sussistenza era l’agricoltura e l’allevamento di bestiame
(mancava qualsiasi tipo di industria), praticati con metodi tradizionali.
Venivano coltivati soprattutto cereali e piante da foraggio.
Buona parte delle famiglie erano proprietarie del terreno su cui lavoravano.
Venivano allevati bovini, ovini, suini, equini ed ampie zone del territorio
erano riservate a pascolo.
A partire dall’inizio degli anni ’20 si registra nell’Appennino modenese un
continuo incremento del numero dei bovini allevati.
Mucche, buoi e vitelli erano condotti al pascolo da maggio ad ottobre e venivano
poi tenuti chiusi nelle stalle e nutriti per tutto l’inverno col fieno raccolto
nella bella stagione. In maggioranza si trattava di bovini di razza montanara
modenese: mantello grigio scuro, testa pesante, corporatura snella e perciò
anche adatta al traino di pesi e dell’aratro, ma scarsa produttrice di carne e
latte. Infatti la media giornaliera di latte era di 5-6 litri per vacca e il
periodo della mungitura di 180-200 giorni l’anno. In media c’erano quattro o
cinque capi per stalla.
Il latte veniva praticamente tutto lavorato artigianalmente in famiglia in
quanto i Caseifici Sociali nella nostra montagna si svilupparono con anni di
ritardo rispetto alla pianura.
Nel Comune di Montefiorino nel 1928 c’erano 1.728 vacche da latte e un solo
caseificio.
Chi aveva capi di bestiame da vendere li doveva trasportare personalmente nelle
fiere che si tenevano nei centri maggiori oppure cederli a mercanti che
passavano di stalla in stalla e che spesso offrivano somme inferiori al reale
valore dell’animale. Gli ovini erano allevati nelle zone più povere, soprattutto
nelle parti con maggior altitudine dove c’erano ampie zone spoglie di alberi e
che permettevano alle greggi di pascolare da giugno a settembre. Nei rimanenti
mesi dell’anno i pastori conducevano le pecore in pianura, particolarmente in
Toscana e lungo il fiume Po.
I prodotti della terra costituivano la principale fonte di sostentamento. Quello
che mancava veniva acquistato nelle piccole rivendite di generi alimentari, che
ogni paese aveva. In inverno l’alimentazione era costituita soprattutto da
polenta di granoturco o di farina di castagne.
La carne compariva nelle feste e negli avvenimenti più importanti.
Il numero dei disoccupati era molto elevato anche in conseguenza del continuo
aumento della popolazione e a molti non restava che la possibilità di
abbandonare il proprio paese temporaneamente o definitivamente per trovare
lavoro altrove, in Italia oppure all’estero. Ad emigrare erano soprattutto i
giovani, la forza più produttiva e dotata, per cui venne a mancare nei nostri
monti una parte importante e vitale della popolazione. Le mete erano molto varie
comprendendo grandi città del nord Italia (Milano, Genova), le campagne della
pianura Padana e Toscana, Sardegna, Corsica, Isola d’Elba ma anche l’estero
(Francia, Belgio, Germania, Libia, Algeria, Tunisia, Stati Uniti, Canada).
Il fenomeno dell’emigrazione fu molto marcato fino agli anni ’30. Il regime
fascista impose molte restrizioni all’emigrazione estera e dopo il 1938 ogni
forma di emigrazione verso i paesi stranieri venne praticamente a cessare.
Si andava a lavorare come minatori (Belgio, Germania), zappatori, potatori di
vite, bovari, taglialegna (pianura emiliana, Toscana, Sardegna, Corsica),
segantini (nord Africa), operai e muratori (Genova, Milano, Firenze).
L’emigrazione temporanea si aveva in particolare durante la stagione invernale,
quando i lavori agricoli diminuivano, per poi fare ritorno al paese, che si
ripopolava, all’inizio dell’estate. Gli Stati Uniti rappresentavano una meta
ambita per molti emigranti. Alcuni hanno fatto ritorno dopo molti anni (10-20),
altri si sono stabiliti e costruiti una vita all’estero e rientrano solo
saltuariamente al paese.
Dopo la seconda guerra mondiale, durante la quale un certo numero di emigrati
tornarono ai monti, ci fu una ripresa dell’emigrazione verso i centri maggiori
della pianura dove si stava realizzando un intenso processo di
industrializzazione.