Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia


 

Facoltà di Economia


 


Corso di laurea in Economia Aziendale


 


 


 


 

L’EMIGRAZIONE DELLE COMUNITA’ MONTANE DELL’APPENNINO MODENESE OVEST

DALL’UNITA’ D’ITALIA AL SECONDO DOPOGUERRA


 


 


 


 


 

Relatore: Chiar.mo Prof. Giuliano Muzzioli

Tesi di laurea di Monica Bertugli


 

 


 

 


 


 


 


 

 

Anno Accademico 2001/2002

 

 

 



 

INDICE


 

INTRODUZIONE


 

CAPITOLO 1 – VITA IN MONTAGNA


 

CAPITOLO 2 – STORIA DELL’EMIGRAZIONE DELLA MONTAGNA MODENESE

2.1 Emigrazione temporanea

2.2 Emigrazione permanente

2.3 Vita da emigrante all’estero

2.4 Tragedie vissute dai nostri emigranti all’estero

2.5 La via d’America

2.6 Effetti dell’emigrazione sui luoghi d’origine

2.7 Dopo la prima guerra mondiale

2.8 Il secondo dopoguerra

2.9 Breve conclusione


 

CAPITOLO 3 – LA VALLE DEL DRAGONE: IL COMUNE DI PALAGANO

3.1 La vita degli abitanti del Dragone dopo l’Unità d’Italia

3.2 Il gemellaggio con Carqueiranne

3.3 Il giornalino locale “LA LUNA”

3.4 Interviste ad alcuni emigranti


 

CAPITOLO 4 – L’AVVENTURA DI CAPITAN PASTENE: PAVULLO NEL CILE 63

4.1 Il fenomeno immigratorio in Cile

4.2 La legislazione cilena in materia immigratoria

4.3 Il nazionalismo cileno e il problema immigratorio

4.4 L’immigrazione italiana e le sue caratteristiche

4.5 Il ruolo dell’agente di emigrazione: la figura di Giorgio Ricci

4.6 L’avvio del progetto di colonizzazione: la colonia “Nueva Italia”

4.7 Il progetto di riavvicinamento fra Capitan Pastene e Pavullo

4.8 Conclusioni


 

APPENDICE: TABELLE


 

BIBLIOGRAFIA

 


 


INTRODUZIONE

L’emigrazione italiana nel mondo ha rappresentato uno dei tratti più peculiari e caratteristici dell’intera storia italiana contemporanea. Se è vero che molti altri paesi hanno conosciuto e conoscono flussi migratori di grande portata, è difficile trovare altri esempi, come quello italiano, così intensi, così a lungo distribuiti nel tempo, così variegati per provenienza territoriale e sociale, così diversificati per luoghi d’arrivo.

E’ stata l’età contemporanea, e più precisamente il periodo tra gli ultimi decenni dell’800 e gli ultimi decenni del 900, a toccare l’apice di un fenomeno che si è espanso nel corso di almeno un secolo, fino a diventare una delle dorsali costitutive dell’intera storia nazionale.

A ben vedere, è la storia intera del nostro paese in età contemporanea ad aver ereditato dal fenomeno migratorio i suoi più essenziali caratteri. Che cosa sarebbe stata l’economia italiana senza quel grande fenomeno di accumulazione delle risorse rappresentato dalle rimesse degli emigranti? E quale grandioso interscambio di mestieri, esperienze professionali, tecnologie si è realizzato attraverso il tramite dei flussi migratori? E quanto la nostra emigrazione ha pesato nel nostro universo simbolico, nella costruzione e definizione della lingua, della nostra cultura, della nostra identità collettiva? Come sono stati ridefiniti gli stessi ruoli familiari e la portata delle presenze femminili?

Questi sono alcuni dei molteplici interrogativi che scaturiscono dallo studio di un fenomeno come quello emigratorio, spesso sottaciuto o sottovalutato ed in realtà meritevole di una rinnovata considerazione.

L’emigrazione dall’Appennino Modenese, interna ed estera, riveste i panni dell’emigrazione nazionale. Si dispiegò ininterrottamente lungo un intero secolo dopo l’Unità Nazionale e coinvolse migliaia e migliaia di famiglie. Molti non fecero più ritorno. In alcuni casi vennero fondate delle vere e proprie città, come nel caso di Capitan Pastene in Cile, di cui parlo nel mio lavoro.

Ho voluto ricordare come la storia di ogni piccolo paesino dell’alto Appennino Modenese, quale quello in cui io stessa vivo, sia impregnato delle vicende toccanti e pregne di sacrificio di uomini e donne che lasciavano il loro paese alla volta di un futuro incerto in terre lontane.

Da “montanara” quale io sono, posso confermare quanto sia vero lo spirito di attaccamento in ognuno di noi a una terra che spesso si è rivelata ingrata, ma al tempo stesso tanto amata e rimpianta.

La storia con la “S” maiuscola, nella maggior parte dei casi, è proprio fatta dall’insieme di storie vissute e raccontate. Io ho avuto la fortuna di sentirle queste storie, direttamente dalle parole di questi uomini, in alcuni casi ormai molto anziani, ma desiderosi di far conoscere ai più giovani i sacrifici fatti per arrivare ai miglioramenti di oggi. Spesso si resta increduli di fronte ai loro racconti; figuriamoci poi quando non ci sarà più nessuno di loro in vita, e le loro vicende si potranno leggere solo nei libri. Allora sì, quasi nessuno crederà alle sofferenze e alla nostalgia che interi popoli, non tantissimo tempo fa, furono costretti a patire.


 

Mi sento in dovere di ringraziare tutti coloro che hanno permesso la realizzazione di questo studio, ed in particolare l’Arciprete di Palagano Don Fabrizio Martelli, il sig. Antonio Parenti, membro dell’esecutivo della Consulta Regionale per l’Emigrazione ed Immigrazione, il prof. Silvano Braglia, Flavio Sassatelli e tutta la redazione del giornalino “La Luna”. Un ringraziamento particolare va esteso al prof. Giuliano Muzzioli e al dott. Enrico Nannini, che hanno gentilmente seguito l’evoluzione di questo lavoro.

Da ultimo, ma non per importanza, vorrei ringraziare tutti coloro che mi sono stati vicino in questo arco di tempo, in particolare i miei genitori ai quali dedico questo lavoro.


 


 

CAPITOLO 1 – VITA IN MONTAGNA

 

 

All’inizio del secolo l’Appennino Modenese, come del resto la maggior parte delle aree rurali, fu caratterizzato da una crisi economica che non risparmiò i suoi abitanti.

Come mostra ampiamente Ercole Sori (1), i fattori di espulsione che portarono milioni di italiani ad emigrare, dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale, sia verso il nord Europa che verso i paesi d’oltreoceano, furono moltissimi. Essi vanno ricercati soprattutto nell’arretratezza dell’economia italiana rispetto ai ritmi della rivoluzione industriale e nei rapporti capitalistici che andavano imponendosi, relativi al processo di modernizzazione.

La capacità di adeguamento dell’economia italiana fu estremamente debole, soprattutto per quanto riguarda il settore agricolo. La cronica insufficienza di reddito, la mancanza di circolazione di denaro, le imposte fondiarie da pagare nonché i rapporti di asservimento che gravavano sulla popolazione contadina furono dei fattori determinanti per la scelta dell’emigrazione.

Nelle aree rurali, caratterizzate dalla piccola proprietà contadina, la via dell’emigrazione divenne per molti l’unica possibilità di riscattarsi dalla miseria.

Il fenomeno emigratorio iniziò, fin dalla metà degli anni ’70, ad espandersi a macchia d’olio; esso coinvolse all’inizio le aree del nord Italia, poi, dagli anni ’90, le aree agricole del sud.

Nell’Italia liberale il dibattito sull’emigrazione ebbe fin dall’inizio dei toni molto accesi sia a livello parlamentare che governativo, coinvolgendo partiti politici, studiosi, giornalisti, associazioni cattoliche e liberali, mettendo a confronto, naturalmente, fautori ed oppositori (2).

Ma a prescindere dagli schieramenti pro e contro l’emigrazione, per i molti che dovevano lottare quotidianamente contro la fame e la miseria, la via dell’emigrazione fu l’unica soluzione e l’unica speranza di risolvere lo stato di precarietà in cui versava la loro esistenza. Se le condizioni di vita furono difficili per coloro che vivevano nelle campagne, tanto più arduo era vivere nei paesini dell’Appennino. In questi, dall’unità d’Italia in poi, le condizioni di vita della popolazione furono estremamente precarie; l’alimentazione era a livelli di sussistenza (3), le condizioni igieniche nelle abitazioni spesso pessime e le malattie e le epidemie erano sempre in agguato (4).

Uno sguardo all’economia ci può dare chiaramente un quadro esaustivo delle condizioni, circa generalizzate, della popolazione appenninica. L’economia di una famiglia di montagna era un’economia autarchica, chiusa, nella quale i mezzi di produzione dovevano provenire dalla stessa azienda e i prodotti consumati all’interno della stessa. Ciò era dovuto all’indole dei contadini di fine ‘800, restii ad accettare qualsiasi novità e ad altri fattori quali l’educazione inadeguata e la scarsità di vie di comunicazione. “…L’agricoltura sarebbe meritevole di molta cura e capace di molti progressi. Vi è una naturale difficoltà, come sempre nelle montagne, ad accettare nuovi metodi; una naturale diffidenza ad accettare cose nuove che è caratteristica. Non dico che essa sia sempre irragionevole, ma nemmeno è sempre ragionevole. Usiamo porre i bestiami in istalle con pochissima luce ed aria e spesso con poca pulizia, cose che non possono non danneggiarne la razza e l’educazione. I nostri agricoltori, non imprenditori, non temerari, non innovatori si contentano del poco e le fantasie di sterminate ricchezze, di guadagni straordinari non esaltano la loro testa” (5).

La boaria era poco praticata in montagna, molto di più in pianura. Gli affitti erano rari, dato che, dove non era presente la conduzione in proprio, il contratto agrario utilizzato era quello della mezzadria, la quale prevedeva che il bestiame utilizzato fosse fornito dal padrone del terreno e che al mezzadro spettasse la metà di ciò che si ricavava dal bestiame e dal terreno. In molti altri casi, chi non si trasferiva sul terreno del padrone, ma prendeva in conduzione un terreno altrui (così come si diceva “al mezzo”), impiegava il proprio bestiame e ricavava la metà del raccolto. Per le castagne, invece, “si faceva al terzo”.

Questo sistema vigeva non solo sulle montagne dell’Appennino, ma anche nella Bassa Padana, anche se era sicuramente caratterizzato da oneri maggiori per il mezzadro, dato che i luoghi più isolati sono generalmente quelli che vedono un più tardo miglioramento dei diritti da parte del più debole (6).

Era praticata anche la soccida, in base alla quale al conduttore a cui era affidato il bestiame spettava quale compensa la metà dell’accrescimento e l’incremento di valore del bestiame al termine del contratto.

Agricoltura ed allevamento bestiame erano, allora, le uniche fonti di sussistenza.

Il frumento era la coltivazione più usuale, con un rendimento che variava in relazione al fatto che ci si spostasse verso l’alto o si scendesse verso la pianura; nelle zone impervie non raggiungibili dalle trebbiatrici, il chicco era estratto dalla pianta facendo ricorso a grossi sassi trainati dal bestiame, oppure utilizzando due bastoni chiamati “cerchie”. Il frumento era una soluzione alla scarsità di cibo, perché da esso si ricavava pane e pasta. Numerosi erano i mulini per macinare i cereali ed ogni gruppo di case aveva il suo forno per cuocere il pane. La mancanza, però, di sementi selezionate e le avversità stagionali davano raccolti poco remunerativi; quando proprio andava bene, un sacco di grano seminato ne dava sette al raccolto.

Anche il granoturco era diffuso, ma la sua coltivazione non era possibile nelle zone più elevate dell’Appennino. Inoltre la sua coltivazione comportava il depauperamento del terreno e l’uso prolungato e continuo della farina di granoturco (ingrediente base della polenta “gialla”) era causa della pellagra. Come compensazione vi era la coltivazione dell’orzo, della segala (per la paglia pregiata a coprire le capanne), della “scandella”, un misto di orzone e “veccia” seminate insieme, delle fave, tra le leguminose, e anche delle patate. Frumento, scandella e fave, mescolate e macinate insieme, erano chiamate “roba da pane”: il pane di solo frumento era un lusso per signori. Veniva coltivata anche la vite, ma solo al di sotto degli ‘800 metri, a causa del clima rigido nell’alto Appennino, che portava ad una vendemmia molto precoce e poco redditizia.

Era praticato anche l’allevamento bovino, riservato però a coloro che avessero una discreta estensione di terreno per permetterselo. Tale attività differiva in relazione all’altitudine. Nelle zone più basse, il bestiame bovino e in special modo i buoi assumevano grande rilevanza poiché erano solitamente utilizzati per la coltivazione dei terreni, che avveniva con l’aratro; ma quando si iniziava a salire di altitudine e gli aratri erano sostituiti da zappe e vanghe, i contadini preferivano tenere vitelli e vacche che nei pascoli naturali delle montagne trovavano il loro ambiente naturale.

Anche l’allevamento dei maiali era diffuso, in genere uno per famiglia, ingrassato e ucciso per ricavare salumi per tutto l’anno. Essi venivano nutriti nei porcili o lasciati pascolare liberamente tra i boschi di querce, da cui traevano loro nutrimento attraverso le ghiande che, oltre a essere commerciate, fungevano da provviste invernali.

I più poveri, che non potevano permettersi l’acquisto e il mantenimento di buoi e vacche, possedevano pecore e capre da cui ricavavano latte, agnelli e la preziosa lana che, filata e tessuta dalle donne su rudimentali telai, produceva la cosiddetta “sarza”, un tessuto grezzo ma resistente per gli abiti sia maschili che femminili.

Al pascolo degli ovini erano adibite le zone più inadatte alla coltivazione di qualsiasi cereale e generalmente questi terreni erano di proprietà della comunità.

Era solito, per il contadino dell’Appennino, coltivare un orto, dal quale si traeva il necessario per le minestre e la cucina in generale.

I poderi avevano solitamente degli appezzamenti di bosco, utili sia per il nutrimento degli animali che per l’approvvigionamento della castagna, vera regina dell’alimentazione del montanaro, che trasformata in farina veniva utilizzata sia come alimentazione base del contadino, per il suo alto valore nutritivo, sia per l’esportazione in pianura. Il bosco, inoltre, forniva anche, attraverso l’utilizzo del legno di faggio, una buona riserva di carbone.

Chi non faceva il contadino traeva il proprio reddito dall’attività di bracciante, trovando occupazioni periodiche o giornaliere nei momenti in cui c’era bisogno di manodopera per i vari lavori come la mietitura, la vendemmia, la raccolta di castagne e la bonifica dei terreni.

In genere le attività praticate sull’Appennino erano legate alla terra oppure erano attività annesse. Un esempio poteva essere la figura del fabbro nella cui officina si producevano attrezzi agricoli in ferro (zappe, vanghe, falci, accette, punteruoli, mazze, lame) o quelli che servivano per la lavorazione del legno; ma non era comunque inusuale che fosse il contadino stesso a costruire la maggior parte degli attrezzi che gli servivano, dato il regime autarchico a cui era avvezzo. Molto spesso, infatti, mancava il denaro per acquistarli e il ricavato del vitellino o degli agnelli, venduti al mercato, doveva coprire spese più necessarie.

Vi è stato anche qualche tentativo di arrotondare lo scarso reddito agricolo con l’allevamento del baco da seta, ma con scarsi risultati.

L’economia del contadino del modenese era prevalentemente questa. Ma la “sopravvivenza dignitosa” del contadino non dipendeva solo da ciò che poteva coltivare o allevare. Altri fattori, non per ultimo quello climatico, che poteva causare annate cattive portando la siccità, la troppa pioggia o il gelo, potevano causare gravi danni alla fragile economia di montagna. Nella rivista “Il Montanaro” possiamo così leggere i ricordi di tremende annate di fine ‘800, caratterizzate da lunghi inverni, abbondanti piogge e nevicate che compromisero i raccolti per molti anni avvenire. Non a caso, come immediato riscontro, vi fu il notevole aumento di emigrazione verso l’estero che si ebbe nel Circondario di Pavullo nel 1887, un incremento, si pensi, dell’85% rispetto all’anno precedente. L’emigrazione era totalmente temporanea e la parte del leone la fece Frassinoro con 621 emigranti, registrando un aumento del 123% rispetto al 1886.

I fattori climatici si sommavano inoltre alla qualità del sottosuolo, che nell’Appennino Modenese, a causa della presenza di argilla scagliosa e calcare, era di scarsa qualità, in quanto poco fertile e tendenzialmente impermeabile.

Da queste premesse è chiaro che un’economia che dipendeva quasi esclusivamente dall’agricoltura, l’andamento climatico era un fattore più che determinante per la produzione e quindi la sopravvivenza della popolazione. La sua influenza, inoltre, spingeva i contadini a non usare innovazioni ma ad accontentarsi dei metodi tradizionali che garantissero la sopravvivenza. Eppure certe innovazioni avrebbero certamente potuto migliorare la produzione agricola.

Le rotazioni delle foraggiere di 5 o 6 anni, che vennero praticate in pianura fin da fine secolo, non vennero praticate sull’Appennino. I tipi di rotazione adottati furono quelli tipici di un’economia di mera sussistenza, che causavano il depauperamento del suolo e lasciavano il contadino allo “stato liminale” fra la sussistenza e la fame. Il non permettere l’accumulazione di capitale che avrebbe consentito alla famiglia del contadino, durante le annate più difficili, di andare avanti in attesa di tempi migliori, evitando l’emigrazione, gravò notevolmente sulle decisioni dei contadini di partire.

Il voler far produrre alla terra prodotti che la terra a fatica produceva fu uno dei principali sbagli del contadino. Un esempio ne è la coltivazione del granoturco, la cui farina era indispensabile per produrre la polenta, pasto essenziale utilizzato in alternativa alla polenta di castagne. La sua semina avveniva, in montagna, a causa del clima, in maggio, un periodo troppo vicino al caldo dell’estate e troppo lontano dalla stagione piovosa per permetterne la buona crescita (7).

Il bestiame, per contro, era un fattore di potenziale ricchezza, e la zootecnia, che iniziò a svilupparsi nei primi del secolo nella provincia di Modena, ne è un esempio. Le zone appenniniche, tuttavia, non trassero grandi vantaggi dalle innovazioni praticate in pianura.

L’irregolarità delle piogge non permetteva una buona irrigazione dei pascoli dei prati, e la mancanza di utilizzo dei concimi chimici per la crescita delle piante foraggiere, obbligava il contadino ad un allevamento ridotto di animali (8), il che, di conseguenza, lo escludeva automaticamente dall’economia di mercato. Inoltre i vincoli forestali che vietavano l’utilizzo di pascoli liberi, e la tassazione a cui era soggetto il bestiame, furono un serio ostacolo all’espansione dell’allevamento degli ovini (capre e pecore) sull’ Appennino.

A peggiorare la situazione precaria dei contadini dell’Appennino modenese contribuiva anche la rete viaria, o meglio, la quasi assoluta mancanza di strade montane che collegassero i piccoli centri fra loro e ai paesi più grandi della pianura (9). L’isolamento derivante contribuì a consolidare l’economia basata sull’autoconsumo e gli sforzi fatti dalle amministrazioni locali per porvi rimedio finirono per pesare ulteriormente sulle tasse che già gravavano sui contadini.

La cattiva viabilità, ad ogni modo, tenne lontano molti paesi di montagna da fattori che potevano turbare le abitudini tradizionali come ad esempio gli agenti di emigrazione e in genere le campagne pubblicitarie atte a favorire i movimenti migratori indotti (tralasciando l’emigrazione interna e stagionale che procedeva, invece, su binari già consolidati); furono, infatti, soprattutto nei primi tempi del grande esodo, i paesi che avevano maggiori rapporti commerciali con quelli della pianura a risentire dell’emigrazione, quali Frassinoro, Montefiorino, Lama Mocogno… Nei cinque anni compresi fra il 1884 e il 1888, l’80% dell’emigrazione della montagna modenese venne apportata da tali comuni. L’insufficiente rete stradale poteva anche costituire un vincolo psicologico tendente ad accrescere quel rapporto di protezione e di contemporaneo isolamento che la montagna da sempre instaura con il suo abitatore e che lo spinge ad accontentarsi di poco pur di non dover abbandonare i luoghi dove è nato.

In un sistema caratterizzato dal minifondo (10) e da una produzione agricola di sussistenza fortemente dipendente dai fattori climatici (11), dove l’organizzazione della famiglia, generalmente numerosa era di tipo patriarcale, l’emigrazione non fu un fattore sconosciuto, soprattutto per gli uomini che raggiungevano l’età nella quale costituire una propria famiglia. Essi diventarono sempre di più e il conseguente ultrafrazionamento dei terreni che ne derivò, non permettendo raccolti adeguati alle bocche da sfamare, costrinse i figli ad andarsene altrove, spezzando la tradizione che vedeva il figlio lavorare dove aveva lavorato il padre.

Emigrare significava sostanzialmente perdere fiducia nelle cose per le quali i propri genitori avevano lottato e andare verso luoghi dei quali non si avevano che le certezze raccontate dagli altri, barattare quel poco che si aveva con qualcosa che forse si sarebbe potuto avere.

L’emigrazione era e restava sostanzialmente un dramma, drammatica era la vita nel paese che si lasciava, drammatico era il viaggio che portava l’emigrante alle nuove destinazioni, drammatico era l’impatto con la società ospitante.

Dapprima vi fu l’emigrazione temporanea. Durante i mesi invernali, gli uomini lasciavano la montagna ove erano costretti all’inattività, per andare a cercare lavoro sia nelle zone limitrofe dell’Emilia Romagna e della Toscana che nei luoghi più lontani, non di rado all’estero, dove vi erano lavori di bonifica e costruzioni stradali per i quali serviva manodopera temporanea.

Questo tipo di migrazione solitamente permetteva alla famiglia di tirare avanti per tutto l’inverno, ma sempre in un regime di ristrettezze e di privazioni personali. Il carattere di migrazione interna, però, ben presto lasciò il posto a quella internazionale; essendo migrazioni generalmente temporanee che riguardavano in linea di massima gli uomini, la scelta della destinazione non era sempre la stessa; infatti, il variare destinazione significava optare ogni volta per l’offerta di lavoro che proponeva maggiori vantaggi.

Le migrazioni verso l’estero furono indirizzate, soprattutto negli anni ’70-’80, verso il nord Europa (Francia, Belgio, Svizzera e Germania), dove vi erano bonifiche da intraprendere, lavori di costruzione o nelle zone minerarie. Solo più tardi, verso fine secolo, l’emigrazione transoceanica venne ad assumere consistenza. Questo genere di emigrazione fu più complessa, poiché la maggior parte delle volte la famiglia era costretta a vendere i propri averi per poter affrontare le spese di viaggio, il che rendeva l’emigrazione a carattere pressoché permanente.

L’emigrazione transoceanica prese piede ben presto attraverso dei meccanismi di intermediazione molto efficaci, gli agenti e sub agenti di emigrazione. Ai tradizionali paesi europei di emigrazione, si sostituirono paesi come il Brasile e l’Argentina, oppure l’America dei Grandi Laghi che stavano avviandosi verso una grande crescita economica e offrivano prospettive ben più allettanti, ma soprattutto offrivano la possibilità di avere una proprietà senza doverla pagare.

Per quanto riguarda l’emigrazione, il flusso emigratorio dall’Emilia Romagna si concentrò prevalentemente nel periodo che va dal 1876 al 1920; in questo lasso di tempo emigrarono 741.056 emiliani, ovvero il 5% dell’emigrazione totale italiana, con il massimo di 331.540 emigrati nel decennio 1901/1910. Nel trentennio 1891/1920 emigrarono 643.357 emiliani su una popolazione di 2.547.201 nel 1901, 2.812.974 nel 1911, 3.077.080 nel 1921. Questa emigrazione, oltre ad essere la più antica, fu anche la più consistente a livello numerico (12).

 

 


 

CAPITOLO 2 – STORIA DELL’EMIGRAZIONE DELLA MONTAGNA MODENESE

 

All’indomani dell’Unità d’Italia, la situazione economica della provincia di Modena non era certo delle più floride: misere le condizioni di vita, elevato il numero dei disoccupati, arretrata l’agricoltura, commercio ed artigianato alquanto limitati, se non addirittura inesistenti in alcune zone. Se la situazione era preoccupante per le città e le zone limitrofe, si può immaginare quale potesse essere la vita nei piccoli paesi dell’Appennino Modenese, senza parlare dei sacrifici che mezzadri, braccianti e piccoli proprietari erano costretti a sopportare tra tasse e debiti crescenti, povertà e malattie.

Allora e come da alcuni anni accadeva più spesso, l’unico rimedio era quello di emigrare. Senza dubbio il numero di quanti partirono è stato imponente, ma un computo non fu mai rilevato dagli archivi comunali e

parrocchiali, insieme alla loro condizione sociale, né di quanti tornarono

e se e come mutarono le loro condizioni economiche e sociali, né di quanti non tornarono. Quella di cui parliamo era un’emigrazione sicuramente temporanea verso luoghi possibilmente vicini e caratterizzata da più ritorni a casa, innanzitutto la discesa autunnale dei pastori coi loro greggi nelle pianure, e nelle maremme, che risale a tempi antichissimi.

Adolfo Galassini espose le vicissitudini legate alla transumanza in questi termini: “La natura del terreno nella montagna alta, durante l’inverno tutto coperto di nevi, costringe i pastori ad emigrare. E’ bello e poetico (…) l’esodo delle pecore nel settembre. Da ogni famiglia di agricoltori si sceglie uno, detto il pastore, (…) che conduce a climi meno rigidi nella pianura. Il principale scalo delle nostre pecore era ed è il ferrarese, ma in secondo luogo eziandio il modenese, il mantovano, quel di Reggio ed ancora qualche volta di Parma o la maremma toscana. Alle pecore si accompagnano cavalle in numero scarso (…). Il ritorno delle pecore ai monti avviene nel maggio” (13).

L’assenza per parecchi mesi rendeva al pastore formaggio, agnelli e lana, ma se in altre epoche poteva ricevere elargizioni per l’ingrasso procurato al terreno, successivamente si vede costretto pagare un affitto al contadino proprietario per le devastazioni che gli animali arrecavano ai campi.

Non di rado questi pastori si ammalavano: fin dagli inizi del ‘700, tra le cause di morte, incominciano ad apparire le febbri maremmane.

Non che siano mancati gli autori che hanno colto l’aspetto umano e patetico del fenomeno: basti pensare al Fucini, l’autore di quel bel libro che è “Le veglie di Neri” (nel bozzetto Vanno in Maremma, egli descrive proprio una famiglia di montanini, stanata dai monti dal rigore dell’inverno e forse proveniente, come altre, da Fiumalbo per svernare nelle Maremme, a Talamone); oppure a Pedrazzoli che in Paese lontano esprime con toni umani e sentiti il motivo dell’abbandono della terra natale; oppure più recentemente a Cortesi, che rivive in alcune liriche dialettali il momento della partenza di chi è chiamato per le strade del mondo.

Franco Marchionni in “Rassegna Frignanese” ci ricorda come a Fiumalbo nell’anno 1850 su 792 persone emigrate dal paese verso il Gran Ducato di Toscana, la Bassa pianura Padana, il Regno del Lombardo-Veneto solamente una decina si recavano al di fuori della penisola italiana. Nella sua ricerca, Marchionni si sofferma sulla figura del “vergaio”, pastore dal numeroso gregge che, per il periodo della transumanza e dello svernamento, accoglieva assieme ai propri capi anche piccole greggi di altri proprietari che per l’esiguità del numero sarebbe stato anti-economico condurre al pascolo in pianura; questa figura, ormai scomparsa, era quindi il tramite economico attraverso il quale anche i meno facoltosi potevano permettersi un piccolo gregge. I contadini privi di bestiame si dirigevano anche verso altri luoghi: gli abitanti di Palagano venivano impiegati nella pianura mantovana come sfogliatori di gelso per i bachi.

Altri luoghi di lavoro per boscaioli ed operai furono la Maremma toscana con centro a Grosseto (“…molti lavori vecchi sull’Ombrone sono dovuti ai nostri” (14)) e per parecchi anni la Corsica; facevano anche lavori nei campi del Lombardo-Veneto e dell’agro pontino. Dopo la formazione del Regno d’Italia, questo tipo di emigrazione stagionale si diresse specialmente verso la Sardegna, un’isola che necessitava di strade carrabili e ferrovie e fabbricati pubblici, e durò a lungo, anche quando si ebbe la grande emigrazione d’oltre oceano. Anche la Campania e la Sicilia attirarono molti operai Frignanesi.

Nei mesi invernali, quando il lavoro agricolo è molto ridotto, si usava partire dopo le semine autunnali, per guadagnare qualcosa, dove c’era lavoro, come boscaioli e segantini, muratori e scalpellini e manovali, e ritornare poi a primavera inoltrata per attendere di nuovo ai lavori della campagna (falciatura dei foraggi e mietitura del grano).

In tempi in cui non era richiesto alcun titolo di studio per eseguire certi lavori, qualcuno del paese che disponeva maggiormente di denaro liquido partiva con un gruppo di lavoratori, specialmente muratori e manovali; pensava a tutto: viaggio, alloggio, sostentamento durante i mesi in cui si compivano i lavori. I conti generalmente si facevano al ritorno e non erano rare le volte che le uscite bilanciassero le entrate o il guadagno fosse minimo o addirittura i debiti fossero superiori, in caso di spese impreviste per malattie e prestazioni mediche.

In tal modo la campagna del lavoro invernale si risolveva, quando andava bene, nella riduzione di qualche bocca che per alcuni mesi non si sfamava con gli scarsi proventi dei campi del paese natio.

A questo alleggerimento contribuiva anche l’invio a servizio di molte ragazze verso le città dell’Italia settentrionale e della Toscana (Genova, Bologna, Ferrara, Milano, Pisa e Livorno). Qui svolgevano l’attività di domestiche, soggette a fatiche disumane di ogni tipo. Rimanevano nelle case signorili generalmente da settembre fino a metà giugno. Tale costumanza è durata a lungo, fin oltre il secondo dopoguerra.

Un’altra forma di emigrazione femminile fu quella delle mondine nelle paludi del vercellese e del novarese.

Non c’erano leggi protettive né sindacati e uomini e donne lavoravano, si può dire, solo per mantenersi in vita, a vantaggio di qualche “signorotto”, che nel paese allargava la sua proprietà agricola (il modo usuale allora di investire denaro) o accresceva la sua influenza economica disponendo di denaro per prestiti, che spesso erano saldati con la cessione di qualche pezzo di terra.

 

Per il primo ventennio che seguì l’unificazione è grave la carenza dei dati sull’emigrazione. L’analisi censuaria si riferisce dapprima al 1861: a Pievepelago, ad esempio, venne a mancare il 33% della popolazione, a Fiumalbo il 35%, a Frassinoro il 33%.

Col passare degli anni le cose non migliorarono. La conferma arriva dal censimento del 1871 che registra nel circondario di Pavullo 10.531 assenti, con punte a Frassinoro (2.333 ) e a Pievepelago (1.277).

 

 

 

2.1. EMIGRAZIONE TEMPORANEA

Fu proprio l’incontro con la città a mutare la mentalità del montanaro. Egli qui trovò un modello di vita che gli faceva sentire tutto il peso della sua infelice condizione; qui incontrava chi era già emigrato e parlava di padroni generosi, di terre fertili, di guadagni facili che si realizzavano altrove. E se ad ascoltare tali discorsi era un giovane, il rifiuto del presente si traduceva in volontà di emigrare, anche aiutato dalla crisi del modello di vita tradizionale nelle famiglie rurali.

Il muro psicologico che aveva contribuito a smorzare gli impulsi esterofili, cioè il legame alla piccola proprietà, la speranza di ingrandirla, il timore di perdere ciò per il quale i propri genitori avevano lavorato, ora non esisteva più: se si dovevano offrire le proprie sole braccia, sarebbe stato preferibile farlo al miglior prezzo possibile e siccome l’Italia pareva non fornire tale opportunità, meglio andare all’estero.

Una cosa certa è che l’abitante dei nostri Appennini, abituato com’era all’emigrazione stagionale interna, scelse il modello di emigrazione che più gli si confaceva e cioè quella TEMPORANEA. Una volta all’estero il contadino doveva adattarsi ad ogni genere di lavoro, spesso si trovava costretto ad imparare un nuovo mestiere se non voleva trovarsi estromesso dal mercato del lavoro.

Cominciava a farsi strada nella mente dei montanari il miraggio americano (grazie alle notizie di straordinarie ricchezze in quei continenti), soprattutto per i piccoli proprietari terrieri vessati dai debiti e sconfitti dalla crisi agraria. Fu proprio un abitante di una piccola frazione di Fanano, Felice Pedroni, ad inseguire quel sogno. Intrapresa l’attività di pioniere, nel luglio del 1902, scoprì una miniera d’oro in una gola, 500 Km a nord del golfo dell’Alaska, divenuta poi Pedro Creek e che in seguito vide la nascita di Fairbanks, la seconda città dell’Alaska.


 

Il 1884 vide un calo degli emigranti nel circondario di Pavullo: da 820 nel 1881 divennero 215. Questo, in principal modo, perché nella Francia meridionale era scoppiato il colera e le zone più colpite erano quelle di Tolone e di Marsiglia, dove l’emigrazione della nostra provincia di preferenza si dirigeva.

Ma il 1884 fu solo una pausa (15). Nel periodo tra il 1884 e il 1894 le emigrazioni stagionali ripresero verso la Francia e furono dirette in misura minore verso la Grecia e i paesi non europei del bacino Mediterraneo come l’Algeria, la Tunisia…. Si calcola che in quel periodo circa 500 persone all’anno fra agricoltori, operai, braccianti, manovali lasciarono temporaneamente il Frignano.

Il numero degli emigranti stagionali all’estero aumentò considerevolmente dopo il 1894; fra il 1895 e il 1903 essi raggiunsero la media annua di 1800. Loro meta, oltre alla Francia, furono la Svizzera e la Germania


 

 

2.2. EMIGRAZIONE PERMANENTE

In confronto con l’emigrazione temporanea all’estero, quella permanente appare di poca entità, specialmente nel periodo 1884-94, in cui partirono dal Frignano, per una permanenza indefinita in paesi stranieri e soprattutto in Argentina, Brasile, Stati Uniti, una trentina di persone all’anno, mentre dal resto della provincia ne partì un numero dieci volte maggiore.

E’ doveroso ricordare come le condizioni di vita per nostri emigranti, soprattutto in Argentina e Brasile, fossero non sempre rosee, se non addirittura insostenibili. Sul periodico “Cimone” dell’agosto del 1890 si leggeva: ”L’Argentina, l’ultimo sbocco degli emigranti, presenta condizioni tristissime. La vita è carissima, arenato il commercio, mancante il lavoro…rilevante il numero dei decessi… e a rendere più deplorevole la posizione degli emigrati è sopravvenuta la rivoluzione”. D’altra parte, il governo brasiliano, con l’intento di favorire l’incremento demografico concedeva facilitazioni a chi intendeva stabilirsi nel paese. Tuttavia il Ministero Italiano metteva in guardia con ripetute circolari gli operai contro i pericoli della febbre gialla e delle agitazioni politiche allora presenti nel paese.

Ed è altrettanto doveroso ricordare come alcuni lavoratori italiani si recassero davvero molto lontano dal paese natio. A questo proposito viene alla mente la partecipazione ai lavori per la ferrovia Transiberiana, fra il 1880 e il 1904, di abruzzesi e friulani, ma anche, sia pure in numero minore, di lavoratori di queste zone (11 di Pievepelago, 5 di Frassinoro, 2 di Montefiorino).

Dal 1895 al 1903 l’emigrazione permanente frignanese subì un notevole aumento, con una media annua di 260 individui e una punta massima di 1.134 (buona parte dei quali diretti negli Stati Uniti) proprio nel 1903. In special modo l’interesse maggiore era rivolto allo stato dell’Illinois, dove tuttora sono segnalati residenti ben 4.000 oriundi dell’Appennino Modenese. Esso, come altri stati che gravitavano intorno ai Grandi Laghi, sfruttava la fertilità della zona e le locali miniere di carbone che, coadiuvate da un ottimo sistema di comunicazione fluviale e ferroviario, permettevano di produrre ingenti ricchezze e costringevano ad importare manodopera, vista la non sufficiente popolazione locale.

Negli anni successivi, l’emigrazione all’estero (che, a partire dal 1904, riunisce in un solo valore le due correnti permanente o propria e temporanea o periodica, separate negli anni precedenti) raggiunse la sua massima intensità, con punte notevolissime fra il 1906 e il 1910.

Durante questo periodo partirono per l’estero, in media, ogni anno, oltre 4.000 abitanti del Frignano, che costituivano da soli quasi il 70% degli emigrati di tutta la provincia di Modena.

Nel 1906, in cifre assolute, il comune con il numero più alto di emigranti fu Fanano con 544 partenze. Seguirono Pavullo con 505, Montefiorino con 471, Frassinoro e Lama Mocogno con 398. Le partenze per il continente europeo (e in special modo per la Francia, la Svizzera e la Germania) superarono di quasi il doppio quelle per i paesi transoceanici. Fra questi ultimi, i preferiti sono di gran lunga gli Stati Uniti che, nel periodo suddetto, accolsero oltre l’80% degli emigranti modenesi (circa 7.000 in cifra tonda) diretti verso le due Americhe. Seguivano a distanza il Brasile e l’Argentina.

Dopo il periodo 1906-1910, che possiamo considerare della massima ondata, l’emigrazione all’estero decresce fino a scomparire nel biennio 1916-17. Riprende dopo la prima Guerra Mondiale con una certa vivacità, ma, dopo il 1920, la riduzione è continua


 

2.3. VITA DA EMIGRANTE ALL’ESTERO

L’alta montagna frignanese partecipa pienamente al fenomeno migratorio verso l’estero di tipo permanente, anche se ciò avviene piuttosto tardivamente rispetto ad altre zone d’Italia come il Meridione.

I nostri operai sono “las golondrinas”, cioè le rondini, per usare un’espressione molto suggestiva; oppure somigliano a “the birds of passage”, come venivano chiamati negli Stati Uniti proprio per sottolineare una situazione di massima precarietà.

Comunque, soprattutto prima del ‘900, l’estero non era di certo la panacea di tutti i mali. Al lavoro massacrante si aggiungevano disagi oggi impensabili: viaggi in condizioni disumane, lunghe quarantene nei porti quando incombeva la minaccia del colera, i soggiorni disagiati in abitazioni prive di ogni conforto, permanenze forzate lontano dalla famiglia e dal paese natio.

Basta leggere, infatti, alcune lettere di emigranti per averne un’idea ben precisa: “La necessità di trovare lavoro - scriveva Santi Angelo di Sant’Anna Pelago da Algeri il 2 Dicembre 1890 - ci ha condotti quest’anno sul terreno africano… Siamo in 15 minatori occupati con iscarsa remunerazione all’apertura di una strada ferrata… Il nostro ricovero consiste in 3 capanne, da noi stessi edificate alla meglio con tronchi d’albero e frascame, in mezzo a una foresta… La sera del 29 novembre incominciò ad imperversare una burrasca di neve… (che) misurava uno spessore di 75 cm, cosa eccezionale per questi paesi. Per fortuna avevamo provviste alcune legne, ardendo le quali potemmo difenderci dai rigori del freddo e dell’intemperie; ma egual sorte non toccò a due poveri viandanti che sopraffatti, in questi pressi, dalla bufera crescente restarono soffocati. Ignorasi se fossero italiani o francesi” (16).

Nel 1890, certo Massimiliano Olivieri scriveva da Buenos Aires: “Affinchè serva di ammonizione a coloro che fosse rimasta la velleità di varcare l’Atlantico in traccia di quella fortuna che invano ricercano nel paese natio… la vita (qui) è sempre più dura; nelle abitazioni operaie si assiste a scene dolorose… Pane, carne, vitto, vestuario, fitto di casa – tutto rincara vertiginosamente. L’oro è salito al 360%, il commercio è agonizzante, la vita costa enormi sacrifici… Tutti, purtroppo, stanno preparati alla guerra civile, dovuta all’indignazione e alla fame. Rimpiango…di non essere ritornato alla patria per non andar soggetto a chissà quali privazioni” (17).

Ancora da Algeri, Nizzi Francesco faceva pervenire queste poche rassicuranti novità: “Il giorno 2 gennaio (del 1891) è venuta una grandissima nevicata di un metro e mezzo… Dovendo parlarvi del nostro lavoro, con profondo dolore accenno alla miseria in cui ci troviamo causata dalla cattiva stagione e causa anche la piccola ricompensa con cui sono retribuite le nostre fatiche. Oh! che nessuno dei nostri confratelli si azzardi a spingersi su questo continente ove non troverebbe che sofferenza e miseria!” (18).

Di contro Marcolini Attilio di Pievepelago scriveva dalla Grecia:” Appartengo alla squadra di Cabbri e godo ottima salute come tutti i miei compagni di lavoro…La nostra vita è frugale ma non stentata; lavoro ci sarà per mesi e i guadagni sono buoni e non ci lamentiamo…” (19). Era il febbraio del 1891.

Lettere su questo tono, in cui si elencano disagi e privazioni sopportati però con rassegnazione e quasi volentieri perché confortati dal pensiero di giovare ai cari lontani e alla patria, sono frequentissime sui giornali dell’epoca.

In quegli anni si rilasciavano a Pievepelago per le più svariate destinazioni oltre 200 passaporti con validità triennale: erano dunque circa 700 i lavoratori che ogni anno avevano una permanenza più o meno lunga all’estero. Tra le mete preferite, come abbiamo detto, la Francia, la Corsica, l’Africa, gli Stati Uniti. Quest’ultima si presentava come una terra ricca ed ospitale dove chi lavorava era ben retribuito, e in quanto a lavorare i nostri operai non avevano nulla da imparare.

Scrive Galassini: “L’operaio italiano in generale ( è noto dalle relazioni dei paesi esteri ) è lodato per onestà, amore all’ordine, laboriosità, intelligenza e facilità a contentarsi di mediocre paga” (20).

Il numero dei passaporti rilasciati tramite il comune di Pievepelago per il Nuovo Mondo è in continua ascesa con ritmo inarrestabile: dai 40 del 1900 si passa ai 106 del 1903 e ai 126 del 1905. Il 10 marzo del 1904 un gruppo di ben trenta giovani lascia Pievepelago alla volta degli Stati Uniti.

 


 

2.4. TRAGEDIE VISSUTE DAI NOSTRI EMIGRANTI ALL’ESTERO

In linea di massima, le partenze per un paese o per certe zone del mondo avevano un andamento discontinuo e sinuoso, infatti, crisi politiche, momenti di instabilità economica o sociale facevano talora precipitare le partenze.

Basti ricordare gli sconvolgenti fatti di Aigues-Mortes del 1893. In tutta Italia si ebbe un brusco calo di esodi per la Francia e il Frignano non fece eccezione. Il 1893 fu un anno infausto per l’emigrazione italiana e non tanto per la terribile siccità che colpì l’Africa del nord, la successiva carestia e la terribile pestilenza che dilagò in Tripolitania, ma soprattutto per i citati fatti francesi.

Nella cittadina di Aigues-Mortes (importante centro per la raccolta e il lavaggio del sale), il 19 agosto, circa 400 operai italiani che lavoravano là vennero scaraventati nel Rodano dalla folla inferocita e accecata da un selvaggio attacco di xenofobia.

L’allucinante episodio non può trovare solo spiegazione nel quadro dell’inasprimento della politica doganale tra Italia e Francia e nella conseguente guerra di tariffe che fece seguito alla politica filo-prussiana di Crispi (capo del governo dal1887), ma appare soprattutto come atto di intolleranza alimentata a dismisura, in piena crisi economica, da rivalità esasperate per motivi di lavoro e occupazione.

In tutta la nazione si raccolsero fondi: anche a Pievepelago, Giovanetti, facente funzione di sindaco, aprì una sottoscrizione per le famiglie degli operai italiani uccisi ad Aigues-Mortes. Vennero spedite lire 50,10.

Nel corso degli anni altre disgrazie e momenti critici minarono le speranze dei nostri emigranti. Tra questi i fatti di Gibuti del 1899: lì rimasero uccisi alcuni operai di Riolunato, trucidati a colpi di lancia da alcuni indigeni che, apparentemente, non avevano subito alcuna provocazione. Gli operai erano impegnati nella costruzione del tronco ferroviario Gibuti-Harrar, destinato poi ad essere prolungato fino ad Addis Abeba.

Anche i disastri minerari o di altro tipo esercitavano un’azione deterrente, sempre però momentanea. Ciò che accadde a Cherry, nell’Illinois, in cui trovarono la morte ben 259 minatori in parte italiani, scosse l’opinione pubblica.

Ancor più a Pievepelago e a Fiumalbo fu sentito, perché vissuto in prima persona, il disastro di Dawson, cittadina del New Mexico. Il 22 ottobre del 1913 il gas esplose nella locale miniera e tra i morti si contarono 17 fiumalbini, una vittima di Fanano, 2 di Riolunato, 3 di Pievepelago e 15 di Monfestino. E a poco valsero gli indennizzi in dollari inviati alle famiglie dei caduti.

Ancora nel 1916 l’affondamento ad opera di un sommergibile austriaco del piroscafo “Ancona”, carico di merci e di emigranti, suscitò lo sdegno degli italiani; ma nel corso delle ostilità, abituatisi a fatti ancor più gravi, l’azione criminale passò in secondo piano.

Infine non si può dimenticare il disastro della Foresta Verde, in Corsica, nel 1927, dove perirono ben 12 boscaioli di Piandelagotti. E’ ancora viva nei ricordi di uno dei superstiti, il signor Giuseppe Stefani, oggi quasi novantenne, l’immensità di quella tragedia.

La massa dei lavoratori italiani era davvero presente in tutto il mondo. Impossibile elencare tutti i luoghi verso i quali si indirizzarono i nostri emigranti e le innumerevoli e svariate attività che essi svolsero. Cercherò di farne un sommario elenco.


 

IN FRANCIA

La Francia fu il paese che ospitò il maggior numero di emigranti del nostro Appennino, in particolare il 34% dei Modenesi.

Andare in Francia, paese non troppo distante, voleva dire dare un seguito alla tradizione dell’emigrazione interna, svolgere lavori prettamente agricoli o contribuire all’intensa attività edilizia, molto amata dai nostri montanari, nei centri urbani della Costa Azzurra. A partire non erano poi solo gli uomini ma anche le donne, che trovavano occupazione come balie nelle ricche famiglie.

Anni di partenze contribuirono a rendere l’atmosfera più familiare, cosa che distinse l’emigrazione in Francia dalle altre.


 

IN GERMANIA

Le terre germaniche ospitarono il 9% degli emigranti modenesi.

Il tipo e la durezza del lavoro richiesto si adattavano alle caratteristiche dei nostri montanari. Erano infatti soprattutto le miniere e le industrie metallurgiche, nella zona della Ruhr, che vedevano l’impiego dei nostri emigranti. Potevano anche essere occupati nelle cave di pietra e nelle fornaci di mattoni.


 

IN SVIZZERA

Buonissimi rapporti legarono sempre la Svizzera con la nostra emigrazione: essa assorbì il 16% degli emigranti modenesi, toccando la vetta del 29% nel 1899.

La Svizzera, che stava vivendo un accelerato sviluppo economico, richiedeva muratori o manovali, albergatori, salumieri, domestici o casari. Molti uomini e soprattutto donne trovarono lavoro nelle fabbriche locali.


 

NEGLI STATI UNITI

Gli Stati Uniti ospitarono il 16% degli emigranti modenesi, con punte del 33% nel 1913.

Le mete preferite, come già detto, erano le zone dei Grandi Laghi, in particolare l’Illinois o le regioni più interne della Pennsylvania, verso le quali i nostri emigranti si dirigevano a causa di quell’effetto catena migratoria che spingeva a seguire i sentieri già tracciati dai propri compaesani.

Erano le numerose miniere di carbone ad attirare i nostri lavoratori e quindi fu inevitabile la preferenza per i piccoli centri dell’interno rispetto alle grandi città della costa, che già pullulavano di manodopera del sud Italia, che in USA si era già recata da diverso tempo.

Non che la vita in fabbrica fosse migliore di quella nelle miniere. A Chicago Heights c’erano acciaierie, fonderie, fabbriche chimiche…

La scelta degli Stati Uniti sottintendeva un addio, se non definitivo, almeno per parecchi anni al luogo nativo. Ciò rappresentava per il montanaro una dolorosissima lacerazione, la perdita della continuità con il proprio mondo.

 

 

IN BRASILE

L’emigrazione in Brasile rappresentò il 9% di quella complessiva della provincia di Modena, ma furono gli anni del boom della coltivazione del caffè che videro il maggior deflusso. Giunti ai porti brasiliani dopo viaggi disumani, conditi di nefandezze passate alla storia come una delle pagine più tristi della nostra emigrazione, venivano condotti in baracconi dove soggiacevano al rito della quarantena.

Da lì poi venivano trasportati alla fazenda a cui erano destinati e impiegati nelle piantagioni di caffè. Questo particolarmente nella zona di San Paolo, dove le condizioni di vita dei nostri emigranti erano quelle di salariati ridotti al rango di schiavi. I nostri montanari arrivarono però in un periodo nel quale i terreni da cedere agli emigranti erano ormai una rarità e la crisi economica era diventata una realtà.

 

 

IN ARGENTINA

Il 2,5% degli emigranti modenesi scelse l’Argentina, uno dei principali paesi esportatori di cereali, anche se gli anni considerati corrisposero al periodo più buio della vita economica del paese.

Le attività che essi svolsero furono di agricoltori, carbonai, addetti al disboscamento e alle costruzioni ferroviarie. In molti casi la società argentina favorì l’inserimento degli immigrati all’interno del proprio nucleo e il governo italiano non fu da meno. Cito a proposito un atto della Prefettura di Modena datato 3 aprile 1903 (conservato presso l’Archivio di Stato di Modena), firmato dal Ministro Giolitti: ”Avvocato Guglielmo Godio, d’accordo con rispettabile persona di codesta provincia e di piena intesa con l’ambasciata della repubblica argentina, organizza la concessione di terreni in quella repubblica allo scopo di trasportare delle famiglie di lavoratori di codesta provincia. La prego, in quanto possa occorrere, di agevolare quella opera che può tornare utile alla classe lavoratori”.


 

 

 

2.5. LA VIA D’AMERICA (21)

“Partirono all’inizio del secolo con la ferma determinazione che un giorno sarebbero ritornati. I loro corpi, tre fratelli e la moglie di uno di questi, riposano invece nel minuscolo e semplice cimitero di Mark, una cittadina della contea di Putnam, la più piccola dello stato dell’Illinois.

Siamo ai primi del novecento. In montagna non c’è lavoro e le prospettive per un futuro migliore non si intravedono. Raimondo e la moglie Rosa sono agricoltori. Possiedono un podere che non ha però la capacità di sfamare i loro dieci figli: cinque maschi e cinque femmine.

Edmondo, uno di questi figli, nel 1902, appena diciottenne, parte per la mitica America in cerca di quel lavoro che la sua terra non può dargli. Pieno di speranza, lascia la sua casa, i suoi familiari e gli amici. Raggiunge Tolucca nello stato dell’Illinois e qui trova una prima sistemazione: lavora nella locale miniera di carbone, alloggia in casa di compaesani.

Non sono ancora passati due anni dalla sua partenza che lo raggiunge il fratello Guido di circa dodici anni più vecchio di lui, il quale, in Italia, ha lasciato la moglie Filomena incinta di Maria. Anche Guido trova lavoro in miniera, un lavoro duro e scarsamente remunerato. Una volta ambientatosi in quel paese, il giovane scrive alla moglie:” Lascia la nostra piccina Maria ai nonni e vieni in America. Lavoreremo alcuni anni, metteremo da parte un po’ di denaro e ce ne torneremo per sempre a casa nostra”. Così, nel 1906, in compagnia di altri montanari, Filomena parte per gli States. In quel paese dove si parla una lingua incomprensibile alla quasi totalità degli emigranti, la donna non trova quell’ambiente che aveva sognato e, presagendo quello che sarebbe stato il suo futuro e quello della sua famiglia, la giovane rimprovera il marito:” Ma dove mi hai fatto venire? Non torneremo più a casa nostra! Dov’è quella ricchezza che descrivevi nelle tue lettere?”.

Edmondo ritorna in Italia nel 1911; si ferma poco tempo. Quando riparte, porta con sé un altro fratello, Francesco, ventenne, e la nipotina Maria che allora ha 6 anni.

Con alcune valige di fibra (strettamente legate da robusti spaghi), i due fratelli e la nipotina si imbarcarono a Genova su una nave stipata di emigranti che li porta a New York. I circa venti giorni della traversata in Atlantico trascorrono molto lentamente. La monotonia e il pensiero fisso alla casa, ai propri cari, agli amici, rende il viaggio molto triste, nonostante la speranza di un futuro migliore. A bordo della nave, gli uomini giocano alla “mora” o a carte; la donne fanno la calza, spesso pregano (…). Molti emigranti, da casa, si sono portati piccole riserve di cibo che consumano con parsimonia…

 

L’arrivo

L’avvicinamento della nave a New York, offre ai nostri connazionali uno spettacolo fuori dal comune: l’azzurro orizzonte rotto dal profilo dei grattaceli, dà loro la sensazione di aver raggiunto la terra del benessere, della ricchezza.

La nave attracca a Ellis Island, un’isoletta vicina a quella su cui si erge la statua della libertà. Una volta a terra, i passeggeri della nave sono incolonnati e fatti salire prima davanti ai medici (in USA vogliono gente sana) e poi davanti agli ispettori dell’emigrazione ai quali devono dichiarare l’età, il lavoro che sanno fare, quanto denaro si sono portati, se dispongono di un contratto di lavoro e la loro destinazione in America. Ad Edmondo, viene permesso di lasciare subito Ellis Island: è la seconda volta che entra in questo paese. Via Chicago raggiunge quindi Mark dove la sua famiglia da un po’ di tempo dispone di una propria casa di legno. Francesco e Maria vengono invece trattenuti e, solo trascorso il periodo di quarantena, viene loro permesso di raggiungere i congiunti a Mark, un piccolo paese abitato quasi totalmente da italiani che lavorano nella locale miniera di carbone che occupa un migliaio di persone. Le abitazioni di questo paese sono in legno con servizi igienici all’esterno; non esiste una chiesa: quella più vicina si trova nella cittadina di Granville che dista da Mark diverse miglia. Com’era stato in precedenza per gli italiani, i nomi di Maria e di Francesco vengono americanizzati: Maria diventa Mary, Francesco diventa Frank


 

“Bordant” e la birra

Nella loro casa di Mark, Guido e Filomena, per guadagnare qualche dollaro in più, ospitano otto italiani, i cosiddetti “Bordant”, i quali, ogni mattina, alle sette, iniziano il lavoro che continuano ininterrottamente fino alle tre e mezza del pomeriggio. E’ poco prima di quest’ora che mamma Filomena scende nel ” ed accende la stufa a carbone per riscaldare l’acqua che serve ai “Bordant” per lavarsi ed anche per lavare i loro abiti sporchi di polvere nera di carbone. I minatori pagano la “dozzina” a chi li ospita ogni quindici giorni, quando ricevono il salario.

Dopo aver pranzato nel tardo pomeriggio, gli uomini, talvolta, riposano anche fino al mattino successivo. Durante il periodo del cosiddetto “proibizionismo”, finito il lavoro in miniera, aiutano le donne e i bambini a produrre clandestinamente birra, vino e grappa che poi vendono di contrabbando. Nella casa di Mary si fa la birra utilizzando malto, orzo “apes” e lievito. Il tutto, fatto bollire in grandi tinozze, viene poi immesso in piccole bottiglie chiuse da tappi metallici.

 

Dollari e religione

Il nostro minatore, nonostante le privazioni e la vita riservata che conduce, non riesce a risparmiare grosse somme di denaro. Il suo modo di vivere e l’attaccamento morboso al denaro gli procurano il

soprannome di “Greenon” dal termine inglese green: verde, il colore della banconota della moneta statunitense. “Greenon”, in seguito, oltre al significato di amante del denaro, acquista quello di crumiro.

L’abulia dei nostri emigranti a tutto ciò che non è denaro e lavoro, li rende piano, piano indifferenti ad ogni cosa, e quindi, anche alla chiesa. Molte coppie dei nostri montanari sono regolarmente sposate. Altre convivono senza curarsi di regolare la loro posizione familiare. I figli di questi ultimi vengono denunciati ugualmente con il cognome del padre. Ciò, forse, perché quando i nostri connazionali giungono in America, non trovano nessuna assistenza da parte di organizzazioni civile o religiose. Nei primi decenni del secolo, la maggior parte delle chiese della zona mineraria è retta da sacerdoti irlandesi, i quali, non vedono di buon occhio i nostri lavoratori che accusano di essere individui rozzi, di essere andati in quel paese soltanto per guadagnare denaro, di essere pronti a scappare appena hanno messo da parte qualche risparmio, di non curarsi della chiesa (…).

 

La “little Italy”

Gli abitanti della nostra montagna emigrati negli U.S.A. lavorarono tutti in miniera. Abitarono la zona mineraria posta a nord-est di Goose Lake, nei paesi di La Salle, Oglesby, Perù, Spingvally, Tolucca, Lad, Danzel, Standard, Granville, Mark.

Mark era un paese molto tranquillo dove non si verificavano quei fattacci che riempivano le cronache dei giornali e che declassavano anche l’immagine del laborioso e serio emigrante dell’Italia del nord. A Mark, non si assisteva infatti a fenomeni di gangsterismo e tanto meno a quelle lotte fra bande di Irlandesi e di Italiani che invece avevano avuto luogo frequentemente a Chicago e in altre zone non solo dell’Illinois. Questo perché Mark era una “little Italy”, abitata da italiani provenienti in massima parte dall’Appennino modenese, da gente che pensava a fatti suoi, armata di grande volontà e dal desiderio di migliorare la propria situazione economica e pronta a ritornare in patria appena aveva messo da parte quel tanto da permetterle di comperare la casa o il podere.

A Mark si parlava il dialetto della montagna modenese. La lingua inglese, almeno per i primi decenni del secolo, era conosciuta da una ristrettissima minoranza di emigranti. In paese esisteva la scuola primaria (8 anni); chi voleva continuare gli studi doveva recarsi all’High School a Granville.

Durante l’inverno, ed a Mark l’inverno non scherzava (cade molta neve, fa molto freddo), i minatori trascorrevano il loro tempo libero in famiglia o in taverna. Talvolta si ritrovavano in qualche abitazione di conoscenti e si raccontavano fatti accaduti ad altri connazionali, si aggiornavano l’un l’altro sui nuovi arrivi e sulle notizie che questi avevano portato dall’Italia e dal paese. Con il bel tempo, nei giorni di festa, usava fare scampagnate. Al sabato sera, a Mark, prima di cena, aveva luogo la parata dei membri del locale club, in divisa, e c’era anche la banda musicale; dopo cena si ballava. In autunno, c’era anche chi andava ad aiutare qualche agricoltore a lavorare il granoturco, a fare la “spannocchieria”. Per paga, si accontentava di portare a casa foglie di granoturco che utilizzava per riempire il materasso del letto.

 

La miniera chiude

Il 18 marzo 1918, nella miniera di Mark accade un tragico incidente. Edmondo, uomo coraggioso e sempre pronto a svolgere i lavori più pesanti e rischiosi, rimane sepolto da una massa di carbone che improvvisamente si stacca da una parete della miniera: muore sul colpo. La miniera di Mark viene poi chiusa nel 1929. Molti degli anziani restano al paese, mentre i giovani emigrano verso zone migliori e più promettenti. Da minatori, questi intraprendenti montanari si improvvisano baristi, ristoratori, commercianti, muratori ed anche agricoltori. Ed è a questo punto che molti di loro si arricchiscono velocemente. Il prestigio degli Italiani, va quindi via via aumentando. I figli dei nostri connazionali trovano occupazioni decorose. L’integrazione sta lentamente avvenendo e i giovani iniziano a riscattare le umiliazioni subite dai loro genitori. Numerosi di questi emigranti che hanno lasciato il loro paese con a malapena il denaro per pagarsi il biglietto di andata, diventano dei piccoli proprietari: si comprano la casa, si comprano la bottega ed altri la fattoria ed anche l’automobile.

Mentre i genitori di Maria rimangono a Mark, la ragazza, nel 1929, si trasferisce a Highwood dove, qualche tempo dopo, apre un negozio di macelleria.

Higwood è una cittadina che si estende a nord di Chicago, sulla riva destra del lago Michigan, e attualmente conta circa 6.500 abitanti, il cui 75% è di origine italiana e il 50% di questi è originario della montagna modenese, di quella fascia appenninica che si estende da Sant’Anna Pelago fino a Montese. La cittadina di Higwood, ancor oggi, economicamente e amministrativamente, è in mano di figli di nostri montanari, i quali mantengono ancora vive le nostre tradizioni e la nostra parlata”.

 


 

2.6. GLI EFFETTI DELL’EMIGRAZIONE SUI LUOGHI D’ORIGINE

Mentre le conseguenze della migrazione stagionale furono, si può dire, nulle sia sul piano economico sia morale, quelle della grande emigrazione furono grandissime.

Tuttavia per studiare le conseguenze negative o positive, bisogna considerare separatamente i due fenomeni. Senza dubbio l’emigrazione temporanea era vista di buon occhio dagli amministratori del tempo, anche se essa nascondeva dei pericoli di natura umana non indifferenti, quali la disgregazione familiare, la fossilizzazione di chi rimaneva sul posto, l’impoverimento umano delle comunità, l’invecchiamento medio dei residenti, la fuga degli elementi più intraprendenti e validi. E’ facile capire quanti sacrifici costava questo genere di vita, perché rimanessero vivi gli affetti e i legami familiari da una parte e dall’altra. Non c’è da meravigliarsi se certi emigranti si siano perduti, formando nuovi legami con altre persone e abbiano dimenticato la famiglia e la via del ritorno, o siano stati attratti da forme di vita americane che promettevano guadagni maggiori e più facili, o siano entrati anche a far parte di bande illegali e delittuose, cioè di qualche “ghenga”, com’è stata resa nel dialetto montanaro la parola americana “gang”, che vuol dire appunto “banda di malviventi”. Ma a questi aspetti, certamente preoccupanti, facevano riscontro altri elementi d’indubbia validità come la diminuzione della pressione demografica, anche ai fini dell’occupazione locale, l’aumento del tenore di vita, le migliorate condizioni sociali, una maggiore disponibilità di liquidi, la diminuzione del pericolo della criminalità.

Su due punti sembra opportuno soffermarsi: sulle rimesse e sull’alfabetizzazione. In un solo anno finanziario, forse uno dei più floridi e fortunati, il 1909-1910, nel Frignano entrarono tramite vaglia internazionali oltre due milioni di lire, una cifra sbalorditiva, cui bisogna certo aggiungere i fondi entrati in patria per vie traverse e clandestine. I comuni che ne trassero maggiori profitti e che nella spartizione fecero la parte del leone furono, nell’ordine, Frassinoro, Pievepelago, Fanano, Fiumalbo. L’emigrante, poi, che periodicamente veniva a contatto con un mondo in genere più evoluto, era stimolato, per esempio, ad usare la lingua nazionale e ad apparire il più possibile colto e saggio. E’ questa la ragione per cui a Pievepelago, come a Fiumalbo, il tasso di analfabeti è sempre stato di gran lungo al di sotto della media nazionale e tutti, anche i vecchi, sono ora ed erano un tempo bilingue, capaci, cioè, di usare, secondo le circostanze, il dialetto o la lingua nazionale con estrema facilità e disinvoltura.

Le famiglie, inoltre, quando poterono disporre di una certa quantità di denaro, cercarono di avviare i figli agli studi. Cito a proposito il contributo dato in questo senso dal Seminario di Fiumalbo, sorto nel 1820, il quale non servì solo ad educare le vocazioni ecclesiastiche ma anche ad avviare agli studi molti giovani del Frignano.

Non è possibile ripetere le stesse cose circa l’emigrazione permanente: certo il livello socioeconomico e il prestigio di chi si stabiliva, per esempio, oltre oceano sono sempre enormemente saliti fino a posizioni a volte sorprendenti, ma sul posto l’indebolimento di intere comunità ha portato, in qualche caso, al loro collasso e alla loro morte per totale spopolamento. I nuovi equilibri demografici si sono presentati sempre più instabili, con ripercussioni a catena su ogni aspetto della vita sociale e anche psicologica degli individui, con tendenze che hanno avuto dei rallentamenti, mai delle inversioni di marcia.


 

2.7. DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Lo spopolamento del Frignano proseguì anche dopo la prima guerra mondiale.

Nel censimento generale del 1921, oltre 10.000 montanari residenti nei comuni del circondario di Pavullo, e cioè quasi il 12% di tutta la popolazione, risultavano temporaneamente assenti dal luogo di residenza, e tale percentuale saliva mano a mano che si passava dai territori meno elevati a quelli più alpestri e perciò economicamente più depressi. Su una popolazione di 6.182 abitanti, ben 1.086 furono gli abitanti di Frassinoro che scelsero di emigrare; 2.017 gli abitanti di Fanano; 1.351 gli emigranti del comune di Montefiorino; ben 1.187 i pievaroli.

Dal censimento del 1931 risulta che oltre 8.800 cittadini frignanesi, di cui quasi 5.000 residenti nei comuni di Fanano, Fiumalbo, Frassinoro, Montefiorino e Pievepelago, dovettero abbandonare temporaneamente o definitivamente la terra d’origine.

Ha scritto Pietro Alberghi: “Le mete cui si rivolgeva questa massa di diseredati, ricchi soltanto del loro coraggio e dell’incessante desiderio di migliorare la loro posizione economica, erano le più svariate: le città industriali della Lombardia e della Liguria (in particolare Genova e Milano come operai e muratori), le campagne della pianura padana e della Toscana, la Sardegna, la Corsica, l’Elba (come zappatori, potatori di viti, bovari e taglialegna). Molti non esitavano a spingersi nei paesi dell’Europa settentrionale: Belgio, Francia, Germania. [I montanari impegnati nelle miniere del Belgio si ammalavano di tubercolosi polmonare con le note ripercussioni per le loro famiglie; tra le malattie professionali si ebbero pure vari casi di pneumoconiosi].

Altri attraversarono il Mediterraneo (segantini in Libia, Algeria, Tunisia) o l’Atlantico (Stati Uniti, Canada). Furono oltre 4.000 i frignanesi che, a bordo di navi sgangherate o in carrozze ferroviarie di terza classe, uscirono, all’inizio degli anni venti, dai confini italiani, su un totale di 4.600 emigranti di tutta la provincia” (22).

Le possibilità di espatrio diminuirono notevolmente nell’immediato dopoguerra per due ragioni. La prima è data dalla politica del regime mussoliniano, che impostò tutta una campagna propagandistica (senza peraltro riuscire a varare provvedimenti atti ad attenuare lo stato di permanente disoccupazione) contro l’urbanesimo e l’emigrazione. La politica fascista considerava l’emigrazione come impoverimento demografico; la concessione del passaporto era sottoposta ad atto di chiamata o a contratto di lavoro vistato dalle autorità consolari.

A seguito, inoltre, della politica economica del regime fascista favorevole alla bonifica della Maremma e di altre zone dell’Italia centrale, alcuni montanari furono impiegati nei processi di colonizzazione delle nuove terre rese fertili.

La seconda ragione è data dalla politica restrittiva all’immigrazione messa in opera da alcuni paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Tale politica iniziò nel 1914, con il famigerato progetto Burnett, che prevedeva per gli emigrati un breve esame di lettura nei porti di sbarco di fronte alle autorità americane, e culminante nel celebre “quota act” che divenne operativo nel 1929, proprio all’epoca del crollo di Wall Street. L’immigrazione, in particolare, era limitata a quote ripartite fra i paesi di provenienza, nelle quali era diviso il numero massimo di persone autorizzate a rientrare nella repubblica stellata ogni anno. Tale sistema dava un’alta preferenza ai provenienti da paesi anglosassoni o assimilati (olandesi, danesi, tedeschi).

Altri paesi imitarono gli Stati Uniti nelle restrizioni, e cioè l’Australia e la Nuova Zelanda. Le leggi furono previste soprattutto per frenare l’immigrazione asiatica composta di cinesi, filippini e indonesiani, attivi, laboriosi e di facile contentatura.

Un’emigrazione in forte espansione fu quella che si diresse nella Germania nazista a partire dalla seconda metà degli anni trenta. Gli accordi tra il governo italiano e quello tedesco prevedevano che i lavoratori fossero originari di zone che presentassero analogia nel tipo di colture con quelle delle zone tedesche di immigrazione: servivano quindi lavoratori agricoli che sapessero coltivare patate e barbabietole. L’età massima degli uomini era di 50 anni e di 40 per le donne.

Da non sottovalutare poi l’incremento del numero di serve, quasi sempre ragazze della montagna, che si spostarono in città, sottoponendosi a dure e umilianti condizioni di lavoro.

Un numero sempre più numeroso di montanare contribuiva ad ingrossare le schiere di donne che se ne andavano annualmente a mondare il riso a Novara, Vercelli, Pavia. Dal 1933 al 1939 esse raddoppiarono: da 5.100 a 10.400. Le mondine restavano lontano da casa 6-7 settimane, guadagnando 10 lire e qualche chilo di riso per giornate lavorative di 12 o più ore svolte con l’acqua al ginocchio. Molte di loro si ammalavano, ma continuavano a lavorare tra mille disagi per non venire cancellate dalla lista delle partenti dell’anno successivo.


 

2.8. IL SECONDO DOPOGUERRA

Il flusso migratorio degli anni successivi al 1950 fu sostanzialmente diverso da quello avvenuto nel periodo prefascista e fascista. Scrive Pietro Alberghi: “Mentre la maggior parte dei vecchi emigranti tornava regolarmente, almeno nei mesi estivi, al paese natio, nel quale continuava a mantenere la residenza legale, quelli del secondo dopoguerra diretti prevalentemente verso le località industrializzate dell’Italia settentrionale, provvederanno a trasferire quasi subito la loro residenza dal comune di nascita a quello in cui riusciranno a trovare un’occupazione stabile e qui si faranno presto raggiungere dai parenti più stretti, allestendo con loro un nuovo nucleo familiare” (23).

Appena terminata la guerra, in montagna i flussi migratori ripresero con una certa insistenza verso gli Usa (in particolare verso Chicago e lo stato del Michigan), il Venezuela e la lontanissima Australia; ripartì anche il flusso stagionale per l’Europa, in particolare verso la Francia, la Svizzera e il Belgio.

Ma soprattutto con la ripresa economica e l’avvio del processo di industrializzazione, non pochi scesero dall’alto Frignano verso Modena e la Pedemontana, divenuti centro di una grande produzione di ceramica.

Complessivamente nel decennio 1951-61 la popolazione scese da 55.000 a 46.000, segnando un’ulteriore diminuzione nel successivo decennio: da 46.000 a 37.000.

Dina Albani (24) ha cercato di illustrare il fenomeno dello spopolamento (oltre che da un punto di vista quantitativo) attraverso ben più interessanti aspetti qualitativi di esso, proprio per il loro imprimersi sul paesaggio geografico là dove la crisi ha provocato l’abbandono di case e poderi.

Dall’indagine condotta nel 1955 sull’abbandono dei poderi nell’Appennino Tosco Emiliano, i poderi abbandonati nell’Appennino modenese fino a quella data sarebbero stati 134 divisi fra i comuni di Polinago (18), Fanano (22), Lama Mocogno (6), Riolunato (3), Sestola (7), Serramazzoni (22), Pavullo (11), Guiglia (5), Montese (21), Zocca (19). La superficie aziendale abbandonata fu di ettari 1.449,51.

Molte furono, poi, le case e i terreni abbandonati anche in altri comuni, che non compaiono nell’indagine citata, quali Pievepelago e Fiumalbo.


 

2.9. BREVE CONCLUSIONE

Disagi e difficoltà permasero per tutti gli anni ’60. Dalla fine degli anni ’60 si sono manifestati i primi segni di cambiamento evidenziati dalla concentrazione delle proprietà agricole più piccole, dalla diffusione della meccanizzazione e da una riorganizzazione dei caseifici. Il sensibile aumento dei montanari addetti all’industria comprendeva in realtà gli operai pendolari che si recavano a lavorare nelle ceramiche della pianura.

Una presenza industriale più propriamente autoctona si ha solo dai primi anni ’80: nel 1987 le imprese iscritte all’albo artigiano erano quasi 2.500.

La diffusione di attività artigianali anche nei piccoli centri montani e lo sviluppo turistico sembra abbiano stagnato il flusso migratorio. La denatalità tenderebbe a rodere lentamente il numero degli abitanti, compensato però da un ritorno di aborigeni che, raggiunta l’età della pensione, fanno ritorno al loro paese nativo.


 


 


 

CAPITOLO 3 - LA VALLE DEL DRAGONE: IL COMUNE DI PALAGANO


 

Nel 1800, in seguito alla ristrutturazione dei Comuni del Frignano, Palagano venne costituito Comune con le frazioni di Boccassuolo, Costringano e Susano. Il Comune di Palagano ebbe breve vita, fino al 1831, quando fu soppresso ed aggregato, con tutte le frazioni, al Comune di Montefiorino.

Il 4 dicembre 1859, Palagano (1.394 abitanti) venne nuovamente costituito Comune con le frazioni di: Boccassuolo (676 abitanti), Savoniero (211), Susano (209), Costringano (418).

Nel 1869 le popolazioni di Savoniero, Susano e Costringano chiesero ed ottennero di ritornare a far parte del Comune di Montefiorino, spinte dalle pressioni e promesse dello stesso Comune di Montefiorino, che con la costituzione del Comune di Palagano, era stato privato di una buona fetta del proprio territorio. Il Comune di Palagano rimase, così, costituito solo da Boccassuolo e Palagano e, per l’esiguità del territorio e le difficoltà economiche, fu costretto a chiedere di unirsi nuovamente a Montefiorino. Furono però poste delle condizioni, in particolare la presenza di un delegato del Sindaco per lo Stato Civile con sede a Palagano, di un medico condotto proprio, l’impiego del segretario comunale e del collettore imposte, l’esclusivo diritto della frazione di Palagano sul bosco del monte Cantiere, la costruzione di una comoda strada che mettesse in comunicazione Palagano con il capoluogo, la costruzione di una strada con ponte sul fiume Dragone che permettesse a Boccassuolo di mettersi in comunicazione con Montefiorino ed infine di restare estraneo ai debiti contratti in precedenza dal Comune di Montefiorino.

Queste condizioni furono accettate e con regio Decreto dell’11 aprile 1869 venne sancita la fusione in un unico Comune.


 

Il 2 ottobre 1953 fu presentata al consiglio comunale di Montefiorino una mozione in cui si chiedeva l’istituzione di un Comune autonomo con le frazioni di Boccassuolo, Palagano, Savoniero, Susano, Costringano e Monchio. La mozione, presenti 23 consiglieri, ebbe 17 voti favorevoli, 4 contrari e 2 astenuti.

La legge 23/12/57 n°1.286, promossa dal deputato della DC Onorevole Attilio Bartole, decreta la nascita del nuovo Comune di Palagano, il quarantaseiesimo della Provincia di Modena.


 

 

3.1. LA VITA DEGLI ABITANTI DEL DRAGONE DOPO L’UNITA’ D’ITALIA

Si legge su “Il Montanaro”, periodico di Pievepelago, del 1 nov. 1883:

“…E’ una vita ben dura quella ch’esso trascorre (l’operaio montanaro) (…) giovanissimo ancora appena che le forze gli bastano comincia a lavorare e in età di 14 o 15 anni ad emigrare.

Coll’avvicinarsi della stagione autunnale non essendo possibile lavorare più oltre su questi monti è costretto a rivolgersi altrove in cerca di lavoro per ricavare di che sostentare sé e la famigliola. Quale stranezza della natura , mentre da al montanaro sì grande e forte affetto pel suo paese, pel suo umile casolare, quasi a porre a dura prova tale affetto lo costringe ad emigrare e per così lungo tempo.

Nei mesi di ottobre e novembre comincia l’esodo doloroso, e abbandonando la famiglia con 40 o 50 lire in tasca di cui 30 o 40 gli abbisognano pel viaggio, emigra, alla ventura generalmente, in cerca di lavoro; va in Corsica, in Sardegna (…) va in Africa e in Turchia; colà poi si riunisce con altri 10 o 12 e forma una compagnia con un capo, e lavora 12 o 14 ore, abita in baracche costrutte da sé con rami e foglie d’albero, dorme quasi sempre vestito su un mucchio di foglie e paglia su cui stende lo stesso sacco che al giorno gli servì per lavorare e che è ancor madido di sudore; e quando la sera stanco ritorna alla sua baracca deve pensare a farsi da mangiare; e tutto ciò per risparmiare qualche soldo di più da mandare alla famiglia che bisognosa l’attende.

E’ questa la vita di ogni giorno che dura per 8 o 9 mesi finchè arriva finalmente il tanto desiderato giugno, ed allora fa i conti di cassa e se vede che ha un discreto risparmio invita la moglie, la madre, la sorella ad andare ad incontrarlo per lo più a Livorno ove sbarca e dipoi insieme vanno alla Madonna di Montenero, gita che le sue donne in qualche circostanza più o meno critica avevano fatto voto di fare, e ritorna al nativo paese, ed a riabbracciare l’amata famiglia che trova quasi sempre cresciuta d’un nuovo marmocchio.

Riporta a casa quale risparmio del suo onesto lavoro 100, 200, 300 lire circa di cui però dopo pochi giorni poche gliene restano, poiché ha dovuto pagare i debiti fatti dalla famiglia durante la sua assenza, per vitto che è per lo più di polenta di frumentone o di castagne, o di pane di segale e frumento, e restituire il denaro preso a prestito per emigrare.

Si riposa 10 o 15 giorni, indi si dà ai lavori che possono offrire i nostri luoghi, e molte volte per lavorare si deve allontanare alcune miglia dal suo paese ove non ritorna che il sabato sera. E così passa la stagione estiva, finchè giunge l’autunno, riparte di nuovo, e ciò succede ogni anno.

(…) La condizione dei nostri operai è molto variata in questi ultimi 20 anni: sotto il cessato governo non s’avea emigrazione, solo qualcuno passava nella limitrofa Toscana e nelle maremme, qualche miserabilissimo andava tutto al più sino in Corsica; ma non restavano assenti che 5 o 6 mesi. Col crescere della popolazione e quindi dei bisogni, coi cresciuti mezzi di trasporto, con l’essersi diminuite di tanto le distanze, con l’essere venute meno certe fiscalità burocratiche, ha potuto estendersi di molto.

(…) Non si creda che tal modo di vivere cessi così presto, esso dura per 40 o 50 anni, e così questo operaio è costretto a passare lontano dalla famiglia due terzi della vita.

(…) Né si creda ancora che dopo tanti anni di lavoro questo povero possa un dì viver quieto del compenso dei suoi sudori; no, no, ciò succede rare volte; esso, finchè ha forze, lavora, emigra, ma giunge anche per esso la vecchiaia, l’indebolimento delle forze, non può più guadagnare che poco, esso che non viveva che con il lavoro dell’oggi, e delle sue braccia, soffre, sente i bisogni di prima necessità, non ha di che cibarsi, ricorre allora al figlio, ai parenti, ma essi pure sono miserabili e con numerosa famiglia, quindi ben poco gli possono dare, e tante volte il figlio senza pensare che anche per esso verrà il suo turno, istigato dalla moglie nega al padre un tozzo di pane e magari lo scaccia di casa. Allora si vede il vecchio ed onesto operaio, con ripugnanza sì, ma costretto dal bisogno, stendere la mano callosa dal lungo lavoro per avere di che sfamarsi, e qualche volta è avvenuto che non avendo dove alloggiare, vecchio, malaticcio, approfittando della munificenza del Municipio, è andato ad alloggiare in carcere…, ed ecco che gli estremi si toccano, l’uomo onesto e laborioso muore là dove non doveva esserci che il ladro, l’ozioso.

Frequente è pure il caso di operai emigrati che si ammalano, restano mutilati; ed allora si vedono famiglie oneste costrette a soffrire la fame e chiedere l’elemosina. Ecco qual’è il fine che attende il nostro operaio. Esso non ha nemmeno la consolazione di dire: “Morirò all’ospedale”. Ciò che ci dà pensiero non è l’emigrazione che secondo noi, per la generalità è anzi una valvola di sicurezza, e nei nostri luoghi una necessità si ma un bene; è la fine che attende questi poveri disgraziati”.


Nei primi decenni del ‘900, l’amministrazione comunale di Montefiorino mostrava scarso impegno nel venire incontro alle necessità delle frazioni più lontane e si faceva viva soprattutto per la riscossione delle imposte e la consegna delle cartoline di precetto.

Dopo la guerra del 1915-1918, vennero aperte in tutte le frazioni dell’Appennino scuole elementari. Le lezioni spesso si svolgevano in locali di fortuna, messi a disposizione da privati o parroci, e, per la mancanza di personale qualificato, non sempre erano tenute da maestri ma anche da persone non diplomate ma che possedessero una sufficiente cultura. Gli alunni, quasi sempre di classi diverse, venivano affidati ad un solo insegnante. Terminata la scuola elementare, che di solito non si protraeva oltre la terza classe, i ragazzi si univano ai genitori nel lavoro dei campi. Pochi riuscivano a continuare gli studi, soprattutto per motivi economici e per la necessità di doversi allontanare da casa per mesi. L’alfabetizzazione della popolazione non fu completa né rapida. Analfabeti erano particolarmente gli anziani, ma anche molti ragazzi che, per lavorare nei campi o pascolare il bestiame, non potevano frequentare la scuola. Durante il ventennio fascista l’istruzione non migliorò un gran che, particolarmente nei paesi più disagiati. Sia nella Val Dragone che nel resto dell’Appennino Modenese erano praticamente assenti altri tipi e gradi di scuola.

Carenti erano le condizioni igienico-sanitarie. Medici ed ostetriche stipendiati dal Comune erano pochi e presenti solo nei centri più importanti e raggiungibili con difficoltà, dati la mancanza di mezzi di trasporto e di comunicazione veloci. Poche e distanti erano anche le farmacie. Molto difficile era reperire un medico in breve tempo e procurarsi farmaci, o peggio, in caso di malattie gravi raggiungere un ospedale (Pavullo, Sassuolo o Modena). Molte vittime si contarono nel 1918 in seguito all’epidemia della cosiddetta febbre spagnola. Scarse erano in genere le condizioni igieniche nelle abitazioni, carenti gli acquedotti pubblici e le fognature (spesso gli scarichi dei lavandini scorrevano liberamente per le strade), per non parlare delle linee elettriche e della illuminazione pubblica. Le stanze di sera venivano illuminate utilizzando candele, lampade a petrolio o a carburo. Nel 1951, nel Comune di Montefiorino, erano circa un migliaio le abitazioni sprovviste di acqua corrente e di servizi igienici.

Uno dei problemi più pesanti, soprattutto per le frazioni più lontane dal capoluogo, era la viabilità. C’è ancora chi si ricorda le faticose e lunghe camminate fatte per raggiungere il posto di lavoro, gli uffici comunali, il medico condotto, attraverso strade che più spesso erano vere e proprie mulattiere. Le frazioni sulla destra del Dragone, poi, erano particolarmente disagiate in quanto le strade più importanti per collegarsi con la pianura o la Toscana erano sull’altro versante della vallata. Alla fine del 1922 non erano ancora stati costruiti i tronchi stradali Savoniero-Monchio e Savoniero-Palagano-Boccassuolo. La strada che collega Monchio con il ponte sul fiume Secchia fu costruita dopo la fine della seconda guerra mondiale.

La fonte principale di sussistenza era l’agricoltura e l’allevamento di bestiame (mancava qualsiasi tipo di industria), praticati con metodi tradizionali. Venivano coltivati soprattutto cereali e piante da foraggio. Buona parte delle famiglie erano proprietarie del terreno su cui lavoravano. Venivano allevati bovini, ovini, suini, equini ed ampie zone del territorio erano riservate a pascolo. A partire dall’inizio degli anni ’20 si registra nell’Appennino modenese un continuo incremento del numero dei bovini allevati. Mucche, buoi e vitelli erano condotti al pascolo da maggio ad ottobre e venivano poi tenuti chiusi nelle stalle e nutriti per tutto l’inverno col fieno raccolto nella bella stagione. In maggioranza si trattava di bovini di razza montanara modenese: mantello grigio scuro, testa pesante, corporatura snella e perciò anche adatta al traino di pesi e dell’aratro, ma scarsa produttrice di carne e latte. Infatti la media giornaliera di latte era di 5-6 litri per vacca e il periodo della mungitura di 180-200 giorni l’anno. In media c’erano quattro o cinque capi per stalla. Il latte veniva praticamente tutto lavorato artigianalmente in famiglia in quanto i Caseifici Sociali nella nostra montagna si svilupparono con anni di ritardo rispetto alla pianura. Nel Comune di Montefiorino nel 1928 c’erano 1.728 vacche da latte e un solo caseificio. Chi aveva capi di bestiame da vendere li doveva trasportare personalmente nelle fiere che si tenevano nei centri maggiori oppure cederli a mercanti che passavano di stalla in stalla e che spesso offrivano somme inferiori al reale valore dell’animale. Gli ovini erano allevati nelle zone più povere, soprattutto nelle parti con maggior altitudine dove c’erano ampie zone spoglie di alberi e che permettevano alle greggi di pascolare da giugno a settembre. Nei rimanenti mesi dell’anno i pastori conducevano le pecore in pianura, particolarmente in Toscana e lungo il fiume Po. I prodotti della terra costituivano la principale fonte di sostentamento. Quello che mancava veniva acquistato nelle piccole rivendite di generi alimentari, che ogni paese aveva. In inverno l’alimentazione era costituita soprattutto da polenta di granoturco o di farina di castagne. La carne compariva nelle feste e negli avvenimenti più importanti.

Il numero dei disoccupati era molto elevato anche in conseguenza del continuo aumento della popolazione e a molti non restava che la possibilità di abbandonare il proprio paese temporaneamente o definitivamente per trovare lavoro altrove, in Italia oppure all’estero. Ad emigrare erano soprattutto i giovani, la forza più produttiva e dotata, per cui venne a mancare nei nostri monti una parte importante e vitale della popolazione. Le mete erano molto varie comprendendo grandi città del nord Italia (Milano, Genova), le campagne della pianura Padana e Toscana, Sardegna, Corsica, Isola d’Elba ma anche l’estero (Francia, Belgio, Germania, Libia, Algeria, Tunisia, Stati Uniti, Canada). Il fenomeno dell’emigrazione fu molto marcato fino agli anni ’30. Il regime fascista impose molte restrizioni all’emigrazione estera e dopo il 1938 ogni forma di emigrazione verso i paesi stranieri venne praticamente a cessare. Si andava a lavorare come minatori (Belgio, Germania), zappatori, potatori di vite, bovari, taglialegna (pianura emiliana, Toscana, Sardegna, Corsica), segantini (nord Africa), operai e muratori (Genova, Milano, Firenze). L’emigrazione temporanea si aveva in particolare durante la stagione invernale, quando i lavori agricoli diminuivano, per poi fare ritorno al paese, che si ripopolava, all’inizio dell’estate.

Gli Stati Uniti rappresentavano una meta ambita per molti emigranti. Alcuni hanno fatto ritorno dopo molti anni (10-20), altri si sono stabiliti e costruiti una vita all’estero e rientrano solo saltuariamente al paese.

Dopo la seconda guerra mondiale, durante la quale un certo numero di emigrati tornarono ai monti, ci fu una ripresa dell’emigrazione verso i centri maggiori della pianura dove si stava realizzando un intenso processo di industrializzazione.


 

3.2. IL GEMELLAGGIO CON CARQUEIRANNE

Il Comune di Palagano e Montefiorino suggellano, nel maggio del 1961, il gemellaggio con Carqueiranne, una cittadina francese di quasi 5.000 abitanti, a 13 Km da Tolone, nel dipartimento del Var, restituendo la visita che nel settembre dell’anno precedente avevano già reso i cittadini francesi.

I tre comuni sono legati tra loro proprio grazie all’elevato numero di lavoratori montanari che all’inizio del secolo si recarono nella cittadina francese per trovare lavoro: essi si affezionarono particolarmente al piccolo centro di Carqueiranne dove, insieme alla collina celebrata per i suoi vitigni e per i suoi fiori, trovarono anche il mare con un piccolo porto. Lì i giovani montanari si unirono ai locali e costituirono loro famiglie. Quanti cognomi italiani si riconoscono in quella cittadina: i Busi, i Contri, i Bernardi, i Maffoni, i Mariani, i Pierotti, i Dignatici, i Tassi, i Ranucci, moltissimi di Palagano e Montefiorino.

I giornali dell’epoca celebrarono a dovere il gemellaggio, proprio a sottolineare l’importanza dell’avvenimento come “impresa di pace e di unione tra popoli di diversa nazionalità, ma con comunanza di lingua (ancora in quelle zone è vivo il dialetto della nostra montagna), di costumi e di sentimenti”.

Tra le cerimonie ufficiali di quel giorno i quotidiani risaltarono la messa solenne, la deposizione di corone di fiori al monumento ai caduti, lo scambio di doni, tra cui la pergamena del gemellaggio, artisticamente decorata, che declamava: ”Noi sindaci di Carqueiranne, Montefiorino e Palagano, in questo giorno, prendiamo l’impegno solenne di mantenere un legame permanente tra i nostri Comuni, di favorire in tutti i campi gli scambi tra i nostri abitanti, per sviluppare, attraverso una migliore reciproca comprensione, il sentimento vivente della fraternità; unire i nostri sforzi al fine di aiutare, nella piena misura dei nostri mezzi al servizio di questa necessaria unione di pace, l’unione di tutti i popoli del mondo” (25).

L’intenso programma celebrativo continuò con un concerto vocale, il banchetto con piatti e vini tipici della Francia, e il folclore locale con la gara nautica e il gran ballo popolare in piazza, dove le danzatrici vestivano i tipici costumi provenzali, così diversi dai nostri per i colori più chiari, per il tessuto più leggero, per la foggia più giovanile del copricapo, costituito da una graziosa cuffietta bianca a trine.

Gli incontri tra le comunità italiana e francese continuarono negli anni. Ecco una breve cronistoria:


 

Negli anni successivi i rapporti tra le due comunità si interruppero, molto probabilmente per ragioni di dissidio fra il Comitato di Gemellaggio e la Civica Amministrazione della cittadina francese gemellata con Palagano e Montefiorino.

Nel 1988, durante le amministrazioni Guigli per Palagano e Giraud per Carqueiranne, tali rapporti furono rinsaldati.

Nel mese di aprile del 1999 le Amministrazioni Comunali di Palagano e Montefiorino furono invitate al Corso Fleurs, una grande manifestazione di carri allegorici, interamente realizzati con fiori di produzione locale. Grande ospitalità fu riservata alle due delegazioni.

Nel mese di ottobre dello stesso anno fu contraccambiato l’invito e l’ospitalità alla delegazione Municipale Francese, in occasione della sagra del Tartufo di Montefiorino.

Questi scambi annuali ricorrenti non si sono più interrotti. Nel 2000, in occasione del Corso Fleurs, l’Amministrazione Comunale di Palagano ha portato a Carqueiranne anche la Banda Musicale, con grande successo sia in termini di immagine che di scambi culturali.

Nel giugno del 2000, 2001 e 2002 le Municipalità di Montefiorino e Palagano sono state invitate a partecipare al “torneo internazionale di calcio di Carqueiranne”, riservato a ragazzi di età compresa fra gli 8 e i 13 anni. A questo torneo partecipano, oltre a diverse squadre francesi anche diverse squadre di diverse nazionalità europee

(Germania, Italia, Svizzera, Bosnia…). Nel 2001 Palagano ha partecipato con tre squadre, ottenendo discreti risultati dal punto di vista agonistico; per il 2002 Palagano ha dovuto declinare l’invito per mancanza di squadre con un numero sufficiente di ragazzi compresi nella fascia di età richiesta.

La partecipazione a questi tornei ha favorito la promozione dello sport giovanile e gli scambi interculturali fra diverse realtà europee, che a breve, avrebbero dovuto confrontarsi alla pari, favorendo così l’aggregazione giovanile internazionale.

Nel 2000 Palagano e Montefiorino hanno ricevuto una visita di gemellaggio con la partecipazione di circa 420 cittadini di Carqueiranne. La cerimonia ufficiale si è svolta con scambi di doni e manifestazioni culturali.


 

3.3. IL GIORNALINO LOCALE ”LA LUNA”

Da ultimo, ma non per importanza, è doveroso ricordare il tentativo di mantenere vivi i contatti con i nostri concittadini residenti all’estero intrapreso dal giornalino locale “La Luna”: oltre un centinaio di copie vengono spedite a famiglie di palaganesi che vivono in contrade lontane e che desiderano avere notizie dei loro amati monti.

Molti di questi emigrati inviano al giornale una foto che testimonia che “La Luna” è giunta fino a loro. Tra questi: Emilia Cinqui (Higwood - USA), Pasquina Ferrarini, Adriano Tosi e famiglia Guigli (Higland Park - USA), Lami Giuseppe (Le Tignet – Francia), Fiorenzi Roberto (Bessancourt – Francia), Fiori Tina e Cesarina (Ougree – Belgio), Carolina Marasti (Bruxelles), Ezio e Luisa Pradelli (New York – USA), Guido Gianicoli (Londra), Alberto Pietrosemoli (Maracaibo – Venezuela).

Ecco cosa scrive Giovanni Ranucci da Lille in Francia (aprile 1995): “E’ con molto piacere che ho ricevuto La Luna, la quale mi comunica le notizie del mio caro paese che ricordo sempre con nostalgia, ripensando agli amici e ai parenti che sono stato costretto a lasciare per ragioni di lavoro. Chi scrive è un emigrante che si trova in Francia da 45 anni, con tutta la famiglia, composta da 5 figli maschi e 2 femmine, già tutti sistemati in Francia. In quanto a me, sono già 25 anni che sono in pensione, come pure mia moglie… Abbiamo sempre sognato di ritornare alla nostra patria e in particolare al nostro caro paese; parecchie volte siamo venuti a fare un giretto e abbiamo visto la differenza da quando siamo partiti. Pare un sogno tanto progresso…”.

Ho pensato fosse giusto non dimenticare un “palaganese” che nella memoria di tutti ha compiuto opere eccezionali per lo sviluppo di Palagano, proprio grazie alla sua esperienza di emigrante. Antonio Fratti (26), che tutti chiamavano Tancredi, nacque nel 1888 nella borgata il Borello da una modesta famiglia. Agli inizi del secolo seguì la sorte di buona parte dei giovani di allora, emigrando negli USA. Qui iniziò la sua carriera entrando in una miniera di carbone assieme agli altri suoi compaesani. Questo era l’unico lavoro riservato ai nostri emigranti di allora. Ma, unico fra tutti, si iscrisse subito a una scuola serale ove apprese a parlare e scrivere correttamente la lingua del nuovo paese. Ciò gli consentì di uscire ben presto dalla miniera per impiantare un’attività commerciale seria e redditizia, come può fare solo chi unisce lo studio all’intraprendenza e laboriosità. In questo modo egli riuscì ad accumulare una discreta somma. Al contrario di ora, il sentimento e l’attaccamento al paese erano fortissimi. Pertanto, come tanti altri, decise di rientrare a Palagano. Ma, rispetto agli altri numerosi “americani”, come venivano allora chiamati coloro che rientravano dagli Stati Uniti dopo aver risparmiato una consistente somma di denaro, egli portava con sé una mentalità decisamente superiore. Dopo il rientro definitivo, avvenuto nel 1921, il Tancredi seppe usare al meglio i 5 talenti che si era guadagnati, non solo a vantaggio suo, ma anche della comunità, dimostrando in concreto che la ricchezza individuale non è un male in sé per sé, ma solo se viene usata in malo modo ed egoisticamente. Usata con oculatezza, permette al singolo e alla comunità di progredire.

Tra le sue opere, ricordiamo il progetto di costruzione di un ampio viale che collegasse la Chiesa Parrocchiale alla strada principale, la sua preziosa collaborazione alla costruzione della maestosa cupola della Chiesa, la realizzazione di un acquedotto per il centro di Palagano e, dopo la guerra, la trasformazione della sua casa in albergo, intuendo le possibilità turistiche del paese ed iniziando quella attività che poi fu seguita da altri.


 

3.4. INTERVISTE AD ALCUNI EMIGRANTI

Molti sono gli emigranti che oggi, ormai in pensione, dopo aver conquistato una vita dignitosa per sé e per i propri figli, desiderano tornare in Italia. Grazie alla prosperità raggiunta, i viaggi nel paese nativo, per trascorrere le vacanze con parenti e amici lasciati da tanto tempo, diventano sempre più frequenti. Tanti sono anche coloro che vi si stabiliscono definitivamente, magari proprio nella vecchia casa lasciata in gioventù.

Le testimonianze di coloro che hanno vissuto l’esperienza dell’emigrante, sia pure con modalità e tempi diversi, sono pregne di sacrificio, nostalgia e saggezza acquisita.


 

RIOLI ROSA, nata a Palagano nel 1916.

“Andai nel sud della Francia, a Sifour, all’età di 14 anni, presso uno zio che per me si assunse ogni responsabilità. I primi documenti che dovetti fare mi costarono ben 300 franchi, una grossa somma allora. I parenti che garantivano per un emigrato dovevano essere proprietari o di terreno o di casa.

I primi lavori che svolsi furono il taglio della carne e la pulizia di giardini privati dalle erbacce. Da subito mi ambientai nel nuovo paese, accettai la mentalità del posto, appresi facilmente la lingua e feci nuove amicizie. All’età di 17 anni mi sposai con un francese, benestante, che svolgeva la professione di barbiere, da generazioni attività della famiglia. Iniziai a lavorare con mio marito nel negozio: imparai a tagliare i capelli e a fare la barba ai clienti. Aprimmo in seguito una tintoria e da lì, successivamente con gli anni, altri negozi dello stesso genere. Facemmo fortuna.

I miei parenti reclamavano mie visite, ma io non volevo tornare in Italia, amavo la Costa Azzurra, la mia nuova vita e non rimpiangevo affatto la povertà delle nostre montagne. Ricordo come allora, e soprattutto nei difficili anni di guerra, i Francesi fossero soliti chiamare con diversi appellativi gli Italiani là emigrati. Nel mio paese era in uso il termine baby, di cui io stessa non conobbi mai il significato preciso. Altri appellativi erano molto più dispregiativi, ad esempio mangia-pulci; altri ancora, con la guerra, richiamavano l’atteggiamento di passiva sottomissione e servilismo degli Italiani al regime di Mussolini, tanto osteggiato dai Francesi”.


 

ALBICINI LUIGI di Savoniero (Palagano)

“Tramite il collocamento appresi la notizia che lo stato australiano cercava manovalanza italiana (voleva evitare l’arrivo in massa dei gialli, specialmente dall’Indonesia). Scelsi proprio l’Australia perché altri di Savoniero e Vitriola scelsero in tal senso. Partii nel 1952, all’età di 22 anni come lavoratore edile.

Arrivato là il primo lavoro fu quello di potatore di viti, poi di operaio alle linee elettriche in Tasmania e alle linee telefoniche.

Il governo australiano chiamava gente a lavorare, non per stare a spasso: o si lavorava, o si tornava a casa, o si andava in galera. Non ti davano nulla; solo in caso di malattia venivi aiutato e assistito. In alcuni casi, se perdevi il lavoro, ti davano un piccolo sussidio in attesa che ti venisse offerto un secondo posto di lavoro, che dovevi accettare qualunque esso fosse.

Dopo 2 anni feci venire là la mia fidanzata, originaria del mio paese nativo e ci sposammo.

Appresi la lingua con facilità, essendo molto giovane. Dopo essere stato anche capo operaio, decisi di impiantare un’attività agricola in proprio, per la produzione di cavoli di Bruxelles, nelle periferie di Melbourne (privilegiate erano allora le monoculture).

Dopo 14 anni di sacrifici mi sono costruito la casa. Ho avuto 2 figli: entrambi hanno studiato e sono sistemati in Australia. All’età di 60 anni mi sono ritirato dall’attività. Da allora sono tornato una decina di volte in Italia.

Amo la terra che mi ha ospitato”.


 

ENRICO SASSATELLI di Savoniero (Palagano)

“Qui da noi, sulle nostre montagne, fine anni ’50, c’era lavoro solo per 3-4 mesi all’anno. Di persone abili e volenterose ce n’erano tante, muratori anziani con molta più esperienza di me che, diciottenne e con tanta voglia di lavorare, avevo frequentato solo la Fanfani, la scuola di apprendistato. Alcune persone del posto, già emigrate in Francia, che tornavano a casa per le ferie, raccontavano a noi giovani che là c’era tanto lavoro e richiesta di operai. Io e un mio amico, una volta data la nostra disponibilità, partimmo nel novembre del 1957 (27). In mano avevamo già un contratto di lavoro per un anno come lavoratori edili. D’obbligo era passare attraverso l’ufficio emigrazione di Milano: tre giorni di visite e di analisi. Volevano pagare gente sana e non malata! La città francese di destinazione era Tolone. Arrivati là, ci venne a prendere alla stazione il padrone in persona e ci portò a dormire in albergo. La cosa ci colpì molto, noi, abituati a dormire su pagliericci di foglie di granoturco, trovarci di fronte quei lettoni morbidi e accoglienti. Ma il giorno dopo ci portò in quello che era veramente il nostro alloggio: un’unica stanza che dovevamo dividere in 4 persone. La nostra paga iniziale fu di 170 franchi l’ora e si lavorava 9 ore al giorno; nonostante i sacrifici riuscivamo a mandare qualcosa a casa. Il lavoro ci riusciva bene e, dopo un anno, chiedemmo più soldi. Non ottenendo nulla, decidemmo di lavorare per nostro conto, su commissione. In questo modo guadagnavamo molto più di prima, circa 45.000 franchi la settimana, con 10-11 ore di lavoro al giorno.

Passarono altri due anni fino a che non arrivò la chiamata per il servizio militare. Avevo la possibilità di essere esonerato ma dovevo rimanere in Francia fino a 28 anni e tornare a casa 3 mesi all’anno. Con la paura di non farcela a stare lontano per così tanto tempo, decisi di partire per il servizio militare e dopo avrei pensato cosa fare.

Nel frattempo, con il boom economico, anche nei nostri posti di montagna le cose cominciavano ad andare meglio e io stesso, con altri giovani, fondammo una cooperativa edile.

In complesso, l’esperienza in Francia fu molto dura per la giovane età ma molto utile per l’aver appreso un mestiere. E pensare che molti giovani partivano allora come taglialegna verso quelle zone del sud della Francia: un lavoro decisamente più pesante. Capivamo la lingua e ci facevamo capire, la gente del posto era abbastanza ospitale e il luogo, alternato a pianura e montagna, ci ricordava un po’casa nostra. Al sabato e alla domenica gli abitanti del paese ci chiamavano a fare lavori di muratura o a vendemmiare l’uva e ci invitavano a mangiare nelle loro case, cosa che ci faceva tanto piacere.

Dopo l’esperienza in Francia, io e altri membri della cooperativa andammo a lavorare un inverno a Milano. Altri, dopo una breve esperienza di lavoro in Germania, frequentarono a Montecreto una scuola per diventare capo cantiere, ultimata a Milano”.

 

 


 



 

CAPITOLO 4 – L’AVVENTURA DI CAPITAN PASTENE: PAVULLO NEL CILE


 

Quando pensiamo all’emigrazione sono tanti i luoghi comuni, iconografici, musicali ed altro che ci vengono in mente: le canzoni popolari, le valige di cartone e la quarantena a Ellis Island per chi andava negli Usa, la fatica e le discriminazione, ma poi il successo, se non mancava l’ingegno e la voglia di lavorare.

Ma non è sempre andata così. Ci sono tante storie di emigrazione “povera”, non per incapacità degli emigranti, è ovvio. Tante le storie simili: una l’ha ricostruita Antonio Parenti, presidente del Consiglio Comunale di Pavullo e componente della Consulta Regionale per l’Emigrazione e Immigrazione. Antonio Parenti ha raccontato che in Cile c’è una comunità i cui membri si chiamano Vecchi, Venturelli, Benedetti, Covili, Leonelli ed altri ancora… si è messo sulle tracce di quelle famiglie che dal Frignano, nel 1904 e 1905, si trasferirono in Cile (28). Una concessione dello Stato metteva 63.000 ettari di terreno a disposizione di coloni, quasi un sogno per chi, in montagna, coltivava solo terreno altrui e viveva in povertà. Giorgio Ricci, uno dei titolari della società “Nueva Italia” a cui il governo cileno aveva dato i terreni in concessione, fu il tramite per questa partenza. Ad una prima impressione emerge l’immagine di un uomo fortemente determinato, cui forse non difettò un’inclinazione all’avventura, nel tentativo di attuare un sogno che era stato di ogni emigrante. Ricci fu colui che incarnò le speranze di tutti e, quando venne il momento, i loro rancori.

Nel 1904 partirono le prime 23 famiglie, seguite da altre 63 l’anno successivo; altre 20 si aggregarono lungo la strada, tra cui quella di Cipriano Ratti, fratello di Papa Pio XI. La maggior parte delle famiglie partì da Pavullo, Marano, Vignola, Zocca, Contese e da altri comuni del bolognese. Poca terra distribuita, per di più inadatta alle coltivazioni, boschi soprattutto. Chi restò diede vita a Capitan Pastene, 780 Km a sud di Santiago, nel centro dell’Araucania, terra degli Indios Mapuches.

I modenesi giunsero nel territorio loro assegnato su 144 carri trainati da buoi, abitarono a lungo in una struttura di legno, priva dei più necessari servizi. “Al luogo dove soggiornarono – racconta Antonio Parenti – fu data la denominazione di Monte del Calvario, proprio per le patite sofferenze a giungervi e permanervi”.

Del 1907 è l’inaugurazione ufficiale di Capitan Pastene, nome scelto in omaggio al navigatore genovese Giovanni Battista Pastene e, nel 1910, è elevata a parrocchia la chiesa costruita dai coloni.

Di questa popolazione poco o nulla si seppe nei decenni successivi, fino al 1989, quando alla Consulta per l’Emigrazione e Immigrazione della regione giunse un pressante appello “Capitan Pastene chiama Modena”: da qui il gemellaggio istituzionale e la ricostruzione della rete di relazioni con i parenti in Italia, pressoché assente fino a quel momento. A questo si aggiunga lo scarso interessamento della diplomazia, l’assenza di insegnanti di italiano, l’isolamento geografico del paese. Oggi il gemellaggio è stretto e frequenti sono stati gli scambi di visite.

Prossimo obiettivo di Antonio Parenti, che ha condotto ricerche davvero minuziose, è, con l’aiuto della comunità modenese, contribuire al restauro della chiesa di Capitan Pastene, gravemente danneggiata da un terremoto.


 

4.1. IL FENOMENO IMMIGRATORIO IN CILE

Il fenomeno immigratorio in Cile fa parte di quel più vasto fenomeno di migrazioni transoceaniche che caratterizzarono, in linea di massima, tutti i paesi sia dell’America del Nord sia dell’America Latina fin dalla loro scoperta. I territori della costa atlantica furono i primi ad essere occupati grazie alla loro posizione geografica e alla conformazione fisica del territorio, che li rendeva più accessibili e più adatti alla colonizzazione.

Il Cile, invece, data la sua posizione prevalentemente rivolta verso l’oceano pacifico, era fuori delle rotte atlantiche che caratterizzavano gli altri stati come l’Argentina, il Brasile e gli Stati Uniti, e ciò ne determinò uno sviluppo e delle caratteristiche peculiari. Oltre alla posizione geografica, anche la conformazione del territorio influì sul suo sviluppo. L’estensione ridotta del territorio, caratterizzato da un deserto molto esteso a nord, poche zone pianeggianti da adibire alla coltivazione nella parte centrale e la sua posizione a ridosso della cordigliera andina non facilitarono una colonizzazione massiccia del territorio.

Queste premesse lasciano facilmente intuire la difficoltà di scegliere una meta come il Cile per emigrare, infatti il flusso migratorio più consistente si riversò sulle coste atlantiche e al Cile toccò solo una bassa percentuale di emigranti.

Le statistiche sui movimenti migratori transoceanici risultano essere molto utili per capire l’entità del processo di popolamento di questi territori.

Il periodo compreso fra il 1800 e il 1915 fu il periodo classico dell’emigrazione, caratterizzato dalla migrazione atlantica di lavoratori che si riversarono nel nuovo mondo in cerca di maggior fortuna. Circa 50 milioni di europei lasciarono il vecchio continente. La gran parte di loro si riversò in America del Nord, gli altri (11 milioni) si diressero verso l’America Latina; di questi ultimi, il 46% immigrò in Argentina, il 33% in Brasile, il 14% a Cuba, il 4% in Uruguay, il 3% in Messico e solo il 2% in Cile (29).

Questi pochi dati danno già un’idea delle dimensioni del fenomeno immigratorio in Cile. Esso, rispetto a paesi come l’Argentina e il Brasile, ebbe poche possibilità di assorbire l’immigrazione europea, caratterizzata soprattutto da agricoltori e manodopera non qualificata, nel tessuto socio-economico del paese. L’immigrazione di massa, tipica dell’America del nord o di paesi latinoamericani come l’Argentina, l’Uruguay e il Brasile fu impensabile in un paese come il Cile.

L’Argentina, caratterizzata da territori molto fertili, totalmente spopolati, guardava all’immigrazione come all’unica speranza per poter progredire, anche a livello tecnologico e migliorare di conseguenza la propria economia; il Brasile, invece, dopo l’abolizione della schiavitù, negli anni ’80 del XIX secolo, che aveva portato alla liberazione di migliaia di schiavi di colore impiegati nelle piantagioni di caffè delle regioni della costa, aveva l’urgenza di sostituire la manodopera schiava con immigrati a basso costo, in modo da risollevare l’economia. Fu a causa di questi motivi che i governi di questi stati attuarono politiche basate su progetti di immigrazione massiccia dall’Europa che, unite all’esigenza da parte del vecchio continente di smaltire la manodopera in eccesso che provocava disoccupazione e crisi cicliche, crearono i presupposti per un fenomeno immigratorio di grande portata.

Basti pensare, invece, al tipo di economia che caratterizzava il Cile alla fine dell’800, basato sulla produzione mineraria e lo sfruttamento di giacimento di salnitro, per comprendere come questo paese fosse di ben poca attrattiva da parte degli europei. Nonostante i tentativi fatti dal governo cileno per promuovere un processo immigratorio nel paese, i risultati furono sempre scarsi. Un esempio può essere chiarificativi: se prendiamo in considerazione i dati sulla popolazione straniera residente in Cile nel 1907 (anno di maggiore presenza straniera nel paese) e li rapportiamo al totale della popolazione, vediamo che la percentuale di popolazione straniera rappresenta solo il 4,5% del totale. La situazione è invece molto diversa negli altri stati a maggior afflusso migratorio, in cui notiamo una popolazione straniera che rappresenta ben il 77,9% del totale in Argentina, il 50% circa in Uruguay e oltre il 20% in Brasile (30).

Il Cile, del resto, posto ai margini del mondo, fuori dalle rotte battute dalle navi, lontano e quasi irraggiungibile, data la mancanza di una linea di navigazione che lo collegasse direttamente ai porti, fu ignorato dalla gran massa di emigrati europei che partirono in cerca di fortuna verso il nuovo mondo.

Ciò che caratterizzò l’immigrazione europea in Cile fu la sua esiguità, e questo non solo per il fatto di non essere un polo di attrazione valido, ma anche per il tipo di politiche immigratorie messe in atto dai governi cileni che non seppero sfruttare le potenzialità, o non riuscirono a sfruttarle, e si orientarono così verso un’immigrazione di tipo selettivo.

Il fenomeno delle migrazioni transoceaniche può essere descritto come una parabola discendente che vide un incremento graduale nella prima metà dell’800, un apice a cavallo fra il XIX e il XX secolo, seguito da un declino lento ma inesorabile durante questo secolo.

Le cause di questo declino vanno ricercate nei numerosi eventi che caratterizzarono la storia mondiale. Si pensi alle politiche di chiusura delle frontiere, intraprese poco dopo il primo decennio del secolo XX da parte degli stati che subirono il maggior afflusso di immigrati europei, oppure al sorgere dei nazionalismi che bloccarono la tendenza a favorire i fenomeni migratori o ancora all’avvento delle due guerre mondiali che stabilirono nuove priorità da parte degli stati coinvolti. Dopo la seconda guerra mondiale si ebbe una certa ripresa del fenomeno migratorio transcontinentale, ma il flusso si arrestò in breve per fermarsi del tutto dalla metà degli anni ’50.


 

4.2. LA LEGISLAZIONE CILENA IN MATERIA IMMIGRATORIA

Lo studio dei processi migratori non può prescindere dall’analisi delle politiche immigratorie adottate dai diversi paesi recettori. Nel caso del Cile, tali politiche si orientarono più verso un’immigrazione di tipo selettivo che non di massa. Se si esclude il periodo coloniale, la prima disposizione a favore dell’immigrazione dall’Europa risale al 1817.

Nella seconda metà dell’800, il governo cileno riuscì a pacificare la regione dell’Araucania, consentendo un’espansione agricola a sud del paese che richiese manodopera capace ed esperta: il governo si orientò verso una forma di colonizzazione agricola con immigrati europei e nordamericani.

Le vicende politiche del periodo non favorirono, ad ogni modo, i progetti di colonizzazione. La guerra del Pacifico, sostenuta contro la Bolivia e del Perù (1879-83) e la guerra contro gli Indios Mapuches, conclusasi nel 1882, limitarono notevolmente l’interesse del governo per questioni che, in quel momento, apparivano di secondaria importanza, come l’immigrazione.

Nel 1882 venne creata, attraverso un decreto legge, l’Agenzia generale di colonizzazione ed immigrazione del Cile in Europa, con sede a Parigi e Bordeaux e con uffici dislocati in altri paesi europei. Essa divenne un centro di propaganda e selezione degli immigrati europei da destinare alle colonie agricole cilene. All’azione ufficiale del governo si affiancava quella della SNA (Società Nazionale di Agricoltura) che, attraverso l’Ufficio Generale per l’Immigrazione, venne incaricata di occuparsi dell’espansione delle colonie già impiantate, di elaborare piani di sviluppo dell’immigrazione verso il Cile e di creare agenzie di immigrazione dentro e fuori il paese.

Nonostante tutto questo, il processo di colonizzazione nazionale fu lento e non diede i frutti sperati. Dalla fine del secolo, il governo vi pose fine e prese il via una nuova forma di colonizzazione spontanea per mezzo della vendita all’asta di terre a basso prezzo.

Dal 1890 al 1910 arrivarono in Cile più di 41.000 immigrati. Nel 1907 si stimò la popolazione in 3.114.775 abitanti dei quali 134.524 di origine straniera (il 4% del totale).


 

 

4.3. IL NAZIONALISMO CILENO E IL PROBLEMA IMMIGRATORIO

Sin dalla metà del XIX secolo, i governanti e gli intellettuali cileni svilupparono elaborate teorie per giustificare l’immigrazione europea. I principi liberali che caratterizzarono la politica cilena ottocentesca furono alla base della legittimazione dell’immigrazione straniera.

L’immigrato europeo, specie se proveniente dal nord Europa, era apprezzato dalla società cilena poiché proponeva un’alternativa ai modelli sociali ed economici tradizionali cileni, attraverso l’utilizzo di una tecnologia più avanzata rispetto a quella cilena e l’apporto di capitali che venivano utilizzati permettendo all’economia nazionale di progredire.

Fu solo verso la fine del secolo che iniziò a diffondersi un sentimento di ostilità nei confronti degli immigrati, il quale andò via via prendendo consistenza, fino a sfociare in un aperto nazionalismo portato avanti nei decenni a seguire. Questo sentimento di ostilità iniziò a prendere piede, in Cile, soprattutto nell’ambiente della media borghesia, la quale si sentì minacciata direttamente dall’avanzare degli immigrati verso uno status sociale medio-alto. A differenza di paesi come l’Argentina e il Brasile, che avevano basato le proprie politiche immigratorie sull’esigenza di manodopera a basso costo che andasse ad occupare i posti più bassi della scala sociale, in Cile l’immigrazione si caratterizzò fin dall’inizio per la sua presenza massiccia nel settore terziario.

Il nazionalismo cileno si basò così sulla convinzione che la teoria liberale fosse responsabile della stagnazione dell’economia cilena e che i privilegi concessi agli immigrati avessero contribuito notevolmente all’impoverimento del paese.

 

 

4.4. L’IMMIGRAZIONE ITALIANA E LE SUE CARATTERISTICHE

La collettività italiana in Cile fu presente sin dai primi anni della colonizzazione spagnola: in linea generale i primi gruppi ad arrivare furono marinai,commercianti, missionari gesuiti e militari al servizio della Corona spagnola.

Il salto quantitativo si ebbe fra il 1880-90, fino al 1907, anno in cui l’immigrazione italiana ebbe il suo apice, con un totale di 13.023 residenti. Nei censimenti successivi, invece, la percentuale di italiani sul totale della popolazione andò affievolendosi. Negli anni ’50 vi fu l’ultima ondata immigratoria consistente. Attualmente la popolazione cilena di origine italiana si aggira intorno ad una decina di migliaia di persone. Nel 1994 sono state registrate 4.710 persone con passaporto italiano, delle quali il 36,4% è rappresentato da italiani, il 38,6% da figli di italiani e un 25% da discendenti di terza o quarta generazione.

La presenza italiana in Cile si è sempre caratterizzata per una forte concentrazione nella zona centrale dello stato, quella di più antica occupazione.

Essendo l’immigrazione italiana orientata verso il settore terziario ed in particolar modo dei servizi e del commercio al dettaglio, la tendenza naturale fu quella di insediarsi nei centri urbani. Furono proprio le politiche economiche legate al latifondo, attuate dal governo cileno nel corso dei decenni, che determinarono, in linea di massima, questa concentrazione urbana a scapito dello sviluppo di tipo agricolo.

Fu quella italiana un’immigrazione prevalentemente di tipo spontaneo: in questo modo i soggetti si muovono in base ad un progetto migratorio che può essere più o meno auto-sostenuto ma che comunque ha obiettivi propri, ovvero non decisi da soggetti esterni. Questo non significò comunque disinteresse da parte dello stato nei confronti dell’immigrazione: vari furono infatti i progetti immigratori assistiti da parte del governo. Uno di questi fu proprio il progetto del 1904-1905, che portò alla costituzione della colonia agricola Nueva Italia (31). Esso venne attuato dalla società colonizzatrice Ricci Hermanos e C., alla quale il governo diede la concessione di terreni demaniali nella provincia di Mallevo, da adibire in parte alla colonizzazione agricola e in parte allo sfruttamento da parte dell’impresa colonizzatrice.

L’impresa si prese l’onere di seguire il trasferimento dei coloni dal luogo di partenza, in Italia, fino alla colonia in Cile, di fornire ai coloni i primi aiuti materiali una volta attuata la divisione dei lotti di terreno e di rifornirli di viveri, degli attrezzi agricoli, degli animali da lavoro e da cortile, delle sementi e di tutto ciò che fosse servito alle famiglie per i primi tempi della loro installazione. Le spese sostenute dalla società colonizzatrice sarebbero state rimborsate dai coloni entro un tempo stabilito dal contratto di locazione e il progetto sarebbe stato supervisionato dall’Ispettorato delle terre e colonizzazione del Cile e dal rispettivo organo competente in Italia.

Se effettivamente l’insediamento della prima ondata di coloni , nel 1904, ebbe un esito abbastanza positivo, non si può dire lo stesso della seconda, avvenuta nel 1905. La disorganizzazione e la negligenza da parte dell’impresa colonizzatrice, le aspettative frustrate per la cattiva condizione dei terreni, portarono a numerosi screzi fra l’impresa e i coloni italiani. Questi ultimi si sentirono truffati e colpevolizzati dalla gente del luogo che li considerava colpevoli delle violenze perpetrate dalle autorità nei confronti delle famiglie cilene e mapuches che da tempo occupavano quei territori.

Questo progetto suscitò molte polemiche fra gli intellettuali e la popolazione stessa, poiché non era raro che i titolari delle imprese di colonizzazione riuscissero, con la complicità dei funzionari dei ministeri competenti e del fisco, a trasformarsi in grandi latifondisti, obbligando i contadini e gli indigeni a lavorare per loro. Il caso della colonia Nueva Italia fu solo un esempio di come le frodi intorno a questa pratica attuata dalle imprese di colonizzazione fossero comuni, di come la politica di immigrazione organizzata dal governo fosse per certi versi fallimentare e soprattutto di come alcuni immigrati riuscissero a costruire le proprie fortune personali attraverso lo sfruttamento delle opportunità che una legislazione non appropriata favoriva.


 

4.5. IL RUOLO DELL’AGENTE DI EMIGRAZIONE: LA FIGURA DI GIORGIO RICCI

L’Agente di emigrazione ebbe un ruolo molto importante nella dinamica dei movimenti emigratori transoceanici del secolo scorso. Sebbene non fosse un fenomeno presente con la stessa intensità in tutte le parti d’Italia, il reclutamento delle masse contadine da parte degli agenti fu uno dei fenomeni che più influirono sulla nostra emigrazione e, come disse Ercole Sori (32): “Senza gli agenti, l’emigrazione italiana non sarebbe stata, per dimensione complessiva, scansione temporale e caratteristiche di reclutamento, quella che fu”.

Gli agenti, rappresentanti a volte dei governi d’oltreoceano, di compagnie navali e di imprese di colonizzazione sia pubbliche che private, furono quelle figure che più di ogni altra riuscirono a fare leva sulle masse, fornendo loro un motivo per lasciare quel luogo nel quale l’individuo veniva sfruttato e legato al lavoro non proprio, offrendo il sogno di realizzazione che in patria non sarebbe mai riuscito ad ottenere.

Come afferma Ferdinando Piccioli (33), anche nel modenese, nonostante il Prefetto di Modena escludesse la presenza di sobillatori e agenti di emigrazione, girovagavano nelle campagne e sulle montagne dell’Appennino “personaggi loscamente interessati”; anche se, in risposta ad una Circolare Ministeriale del 1894, le stesse autorità locali dovettero poi ammettere che a Frassinoro, Pievepelago e in altri posti del Frignano erano stati inviati manifesti di incitamento ad emigrare ad osti e a vari proprietari di negozi.

In qualche caso, a svolgere il ruolo di agente di emigrazione erano gli stessi colonizzatori, che partiti anni prima verso il nuovo mondo a “fare fortuna”, grazie alle varie occasioni di arricchirsi trovate sul posto, tornavano al proprio paese a reclutare i propri compaesani, possibili emigranti.

 

Questo fu l’esempio di ciò che accadde a Giorgio Ricci, il promotore dell’emigrazione di un centinaio di Frignanesi verso le lontane colonie agricole del Cile.

Egli fu sicuramente una delle figure più significative e che più si distinsero nel dar vita a questo progetto di colonizzazione. Figlio di contadini, Giorgio Ricci nacque a Verica di Pavullo nel 1870. Lavorò con il padre e il fratello a Bologna, come salumiere. L’apprendimento di un mestiere specifico fu per Ricci il lasciapassare verso la via dell’emigrazione transoceanica: nel 1895, con pochi soldi in tasca, emigrò in Cile, munito di un triennale contratto di lavoro.

I primi anni lavorativi di Ricci non furono diversi da quelli di migliaia di persone che, una volta trovata una specializzazione lavorativa, coglievano l’occasione di emigrare nel nuovo continente e, grazie a qualche aggancio e qualche buona amicizia, trovavano lì lavori più remunerativi ed occasioni di successo.

In effetti l’emigrazione, soprattutto per gli uomini giovani non sposati, era un modo per poter approfittare delle varie opportunità che si presentavano senza aver l’ostacolo della famiglia da sfamare in patria; era inoltre un’occasione per dimostrare quanto si valeva.

Come raccontò egli stesso nei suoi libri, il periodo in cui lavorò a Santiago fu molto importante per poter stabilire contatti con personaggi di grande rilievo, sia nel campo politico che in quello economico. E infatti, dopo poco meno di dieci anni, e messi da parte i capitali necessari, si apprestò, insieme al fratello Alberto, ad intraprendere il primo esperimento di colonizzazione agricola italiana in Cile. Effettivamente, le possibilità di fare carriera ed affari nel nuovo continente non mancavano di certo; bastavano, come era solito dire Ricci, spirito di iniziativa e perseveranza in ciò che si crede.

Anche l’istruzione fu un elemento che Ricci sentì come necessario per poter raggiungere i traguardi di realizzazione personali che si era prefissato, e da autodidatta quale era, cercò in tutti i modi di ovviare alle carenze che la sua estrazione sociale contadina gli aveva precluso.

La decisione di impegnarsi nella fondazione della colonia Nueva Italia fu il salto decisivo che gli permise di avanzare nella scala sociale ed acquisire prestigio in Cile. Del resto anche nel paese d’origine la fama di questo uomo iniziò a diffondersi.

Fu proprio con questo progetto che Ricci diventò Agente di emigrazione, anche se lui ci tenne sempre a sottolineare che la sua opera era rivolta alla colonizzazione e non alla speculazione di “carne umana”, come venne più volte asserito dai suoi avversari.

Nel frattempo, entrò in contatto, quasi casualmente, con Salvatore Nicosia, un emigrato originario della Sicilia, che, dopo qualche anno passato in sud America, aveva trovato il modo di fare i soldi e che, con le sue sole doti, era riuscito ad occupare un posto di estrema rilevanza nella società cilena del periodo parlamentare, sia come giornalista, sia come promotore dell’avvicinamento tra l’Argentina e il Cile in qualità di Console della repubblica argentina in Cile. Ricci, approfondita l’amicizia con Nicosia e resosi conto dei legami che quest’ultimo aveva con le autorità governative cilene, decise di approfittare della legislazione sulle concessioni territoriali allora in vigore ed ottenere dei territori demaniali nell’Araucania, allo scopo di colonizzarli.

Che la legislazione cilena permettesse delle speculazioni, non fu certo un segreto. Ma, nel caso della colonia Nueva Italia, si trattò di questo? Come mai la colonia, a distanza di anni, non ha potuto svilupparsi e creare un fiorente centro economico come si presupponeva che accadesse? La colpa fu dell’impresa di colonizzazione, troppo preoccupata dei propri tornaconti personali? Delle autorità cilene, troppo invischiate in favoritismi e clientelismi con i grandi latifondisti? Oppure delle autorità italiane, troppo poco attente alla salvaguardia dei nostri emigranti e poco presenti nelle fasi successive al loro stabilimento nella colonia? O fu piuttosto l’insieme di tutte queste cause che contribuì a far sì che lo sviluppo di questa colonia fosse non solo lento, ma rallentato dai mille problemi che causò la mancanza di sostegni governativi sia cileni che italiani.


 

4.6. IL PROGETTO DI COLONIZZAZIONE: LA COLONIA “NUEVA ITALIA”

Nel giugno del 1903, i fratelli Ricci assieme a Nicosia, si spinsero nei territori di proprietà del fisco cileno di Nahuelbuta, nelle vicinanze di Lumaco, per esplorare i terreni che l’Ispettore delle terre e colonizzazioni, amico di Nicosia, aveva loro indicato essere a disposizione per una futura colonizzazione. I terreni erano allora abitati solamente da sparuti gruppi indigeni.

A fine luglio, venne firmato il contratto di colonizzazione fra Nicosia e il governo cileno. In esso erano previste una serie di disposizioni. Nicosia avrebbe dovuto svolgere la parte più gravosa, quella di arruolare nell’alta e media Italia circa 30 famiglie di agricoltori (che con successivo decreto diventarono 100) , per formare una colonia nella regione compresa tra Los Sauces, Lumaco e Traìguen. Queste famiglie dovevano essere introdotte in Cile nel termine di due anni dalla data del contratto. L’impresa che si sarebbe costituita avrebbe avuto la direzione dei lavori per la formazione della colonia, sotto la sorveglianza dell’Ispettorato delle terre e colonizzazioni del Cile.

Il governo avrebbe concesso all’Impresa, per ogni colono introdotto, un lotto di 150 ettari per ciascun padre di famiglia e di 75 per ciascun figlio maschio maggiore di due anni, e avrebbe inoltre concesso il terreno necessario per la costruzione di un villaggio.

L’impresa, nella figura di Nicosia, avrebbe dovuto concedere ai coloni tutte le facilitazioni convenienti al loro trasporto dal porto d’imbarco sino ai terreni della concessione, e fare ad essi tutti gli anticipi necessari per la loro installazione nei lotti assegnati. Inoltre doveva garantire che i coloni risiedessero sui terreni loro assegnati per almeno 6 anni (ridotti a 4 nel successivo contratto).

Il governo avrebbe concesso ai coloni i seguenti anticipi: una coppia di buoi, una vacca da latte, un merinos, un maiale, tre volatili da cortile; sott’inteso che Nicosia si sarebbe preso la responsabilità di questi anticipi.

Appena fosse stato possibile, l’Impresa avrebbe dovuto istituire con il concorso del governo, una scuola ed un servizio sanitario per l’intera colonia.

Se il contratto stipulato non fosse stato rispettato, il governo avrebbe rivendicato i terreni consegnati, annullando i diritti di dominio acquistati sino ad allora da Nicosia, mentre ai coloni sarebbero stati garantiti i diritti acquisiti e sarebbero, una volta adempiuti gli obblighi del contratto, divenuti proprietari dei lotti loro assegnati. Infine il decreto prevedeva una cauzione di 25.000 pesos da parte di Nicosia, come garanzia del contratto stipulato.

Dopo pochi giorni, il 4 agosto 1903, venne stipulato il contratto fra i fratelli Ricci e Nicosia, dando vita alla società colonizzatrice “Nueva Italia”. La società fu costituita con tre apporti uguali: Nicosia con il valore della concessione ottenuta dal governo cileno, i fratelli Ricci come capitalisti e per la parte industriale. Venne inoltre data dai Ricci una garanzia di 25.000 pesos per l’esecuzione del contratto di colonizzazione.

Fin dagli inizi, l’impresa non ebbe vita facile. Giorgio Ricci si dovette sostituire a Nicosia nel viaggio in Italia, poiché quest’ultimo era malvisto dalle autorità italiane per dei precedenti poco nobili e per la sua fama di rivoluzionario.

E fu proprio dal suo paese natio che Giorgio Ricci iniziò a contrattare le famiglie. E’ utile sottolineare che in quel periodo era proibito dalle leggi governative far propaganda pubblica di massa all’emigrazione; inoltre, per contratto, gli emigranti dovevano essere agricoltori. Ricci cercò di far leva soprattutto sulle famiglie più numerose, più propense ad emigrare proprio per la loro posizione di precarietà economica.

Fu così che in breve tempo Ricci riuscì ad arruolare 23 famiglie. Si trattava di famiglie che avevano piccole proprietà e non di diseredati, come accadde del resto molto frequentemente nell’Italia di fine secolo. La maggior parte di essi, prima di lasciare il paese, diede disposizioni ai familiari di vendere le abitazioni e quel po’ di terreni che possedeva; la maggior parte di essi non ebbe neanche un dubbio sul fatto che là , in quella colonia distante migliaia di chilometri, avrebbero potuto trovarsi male e sentire il desiderio di rimpatriare. Grazie ad uno studio svolto da Antonio Parenti, è stato possibile avere dei chiarimenti rivelatori sul numero effettivo delle famiglie coinvolte, sulla loro composizione numerica, sulla loro provenienza e sui lotti di terreno spettanti a ciascuna di esse. Le prime 23 famiglie reclutate nel 1903, per un totale di 134 persone, di cui 76 maschi e 58 femmine, provenivano dai comuni di:

Osservando questi dati, si può notare come la maggior parte di essi provenisse da paesi vicino a Verica, luogo dal quale il Ricci iniziò a reclutare le famiglie.

Dopo aver espletato le formalità burocratiche con le autorità cilene in Europa, Ricci ottenne dal Ministero degli Esteri, nell’ottobre del 1904, il permesso di arruolare il rimanente gruppo di agricoltori per il completamento della colonia. Il secondo gruppo era composto da 65 famiglie, per un totale di 373 persone. A differenza del primo, il secondo proveniva in prevalenza dai comuni di Zocca e Guiglia.

La differenza di luoghi di provenienza tra il primo e il secondo gruppo indica che non vi fu un forte richiamo da parte di coloro che erano già emigrati nella colonia. Infatti i pochi contatti fra familiari non dettero luogo a fenomeni di catena migratoria, come invece accadde in altri luoghi d’Italia.


 

Il permesso di arruolare le famiglie di coloni, accordato dal Commissariato dell’Emigrazione a Giorgio Ricci, prevedeva delle condizioni particolari alle quali si sarebbero dovuti attenere sia i coloni che l’Impresa di colonizzazione e che avrebbero costituito l’oggetto del contratto di locazione.

Queste condizioni vengono così brevemente sintetizzate nei seguenti punti:

  1. L’emigrante si impegnava a trasferirsi con la propria famiglia nella Repubblica del Cile per stabilirsi in qualità di colono nei terreni della colonia “Nueva Italia”.

  2. La società si obbligava a fornire alla famiglia i mezzi di trasporto dal luogo di residenza fino alla colonia, compreso il trasporto di 100 Kg di bagaglio per ogni persona al di sopra di 10 anni di età e di 50 per i bambini. Inoltre si obbligava al trasporto dal porto di imbarco alla colonia delle macchine, attrezzi, ferri del mestiere… purché il peso totale non superasse le due tonnellate, e a notificare l’ammontare delle spese di trasporto. La cifra della spesa sarebbe stata annotata in calce al contratto.

  3. La società concedeva un lotto di terreno nella seguente proporzione: al capofamiglia ettari 70, a ciascun figlio maschio, di età superiore agli anni 5, tanti ettari tanti quanti erano gli anni di età, rimanendo inteso che tale quota non avrebbe comunque superato i 25 ettari. La società garantiva buona acqua potabile a distanza non maggiore di due Km dal lotto assegnato.

  4. All’arrivo del gruppo, la Società sarebbe stata obbligata, su richiesta, ad anticipare al colono, al prezzo all’ingrosso, generi alimentari fino a che non fosse stato possibile avere raccolti; due buoi, un aratro, zappe, vanghe, sementi ed altri piccoli attrezzi; un’abitazione pronta all’arrivo. Qualora la casa non fosse stata pronta e fosse stata da costruire con materiali forniti dalla Società, il colono avrebbe dovuto restituire solo l’ammontare del valore dei materiali.

  5. Il colono si obbligava a rifondere alla società le spese sostenute per il trasporto per terra e per mare, come pure delle anticipazioni fattegli, in quattro annualità uguali senza interessi di sorta.

  6. In garanzia dell’adempimento degli obblighi assunti, il lotto sarebbe rimasto ipotecato fino alla totale estinzione del debito.

  7. Il colono si obbligava, per un periodo di sei anni, a dimorare con la sua famiglia nella porzione di terreno assegnatogli, a non cedere i suoi diritti sulla stessa e a non eseguire alcun atto che lo avesse privato del suo pieno diritto di possesso. Se avesse lasciato il terreno prima del termine non avrebbe avuto diritto ad alcun indennizzo e sarebbe stato obbligato a restituire l’importo delle anticipazioni ricevute.

  8. Dopo sei anni e rimborsati i debiti contratti con la società, avrebbe avuto il titolo definitivo di proprietà del suo lotto di terreno, rimanendone proprietario assoluto.

  9. La società, infine , si impegnava a tenere nella colonia un armadio farmaceutico e a distribuire gratuitamente, durante i primi sei anni, i medicinali occorrenti ai coloni.

Ciò che risalta chiaramente dal contratto stipulato fra l’Impresa e il colono fu l’assegnazione di una quantità inferiore di terreno rispetto alla concessione che il governo cileno stipulò con l’Impresa.


 

Il viaggio rappresentò il punto di rottura, in molti casi definitiva, fra ciò che l’emigrante considerava familiare e la nuova realtà a cui andava incontro. L’aspettativa di una vita migliore fu sicuramente un elemento positivo che influì sul morale delle famiglie di coloni.

Il gruppo di coloni partì da Modena il 2 febbraio del 1904, su un treno speciale che li avrebbe condotti al porto francese di Pallice-Rochelle, da cui, non esistendo in Italia nessuna linea diretta di piroscafi per il Pacifico, era possibile imbarcarsi direttamente per il Cile.

A Modena si unì alla comitiva il Commissario governativo Lomonaco, incaricato di controllare che non vi fossero irregolarità nell’attuazione del contratto.

Il 7 febbraio iniziò l’imbarco sul piroscafo “Oruba”, della Pacfic Steam Navigation Company.

Una volta arrivati a Talcahuano, il 10 marzo 1904, dopo 32 giorni di traversata, il gruppo venne accolto dagli altri componenti dell’Impresa e da alcune autorità arrivate a presenziare, e da lì il gruppo proseguì per Los Sauces. Dopo questo tragitto, il gruppo proseguì formando una carovana di carri trainati da buoi e, passando per Lumaco, arrivarono finalmente alla colonia.

Sicuramente la relazione di Lomonaco colse più l’aspetto descrittivo e ufficiale dell’impresa, sorvolando su quella che sicuramente fu un’esperienza sofferta da parte dei coloni e che rappresentò l’inizio delle privazioni a cui vennero sottoposti dopo il loro arrivo.

Come ci descrive Lomonaco (34):“All’arrivo del gruppo, le case dei coloni non erano pronte; la maggior parte di esse era sprovvista di tetto…”. I coloni iniziarono a capire da subito che la vita nella colonia non era tutta “rosa e fiori” come era stata loro descritta. Furono così sistemati in casermoni provvisori, costruiti in legno e costituiti da 25/26 camere contigue (35).

Certo, come fa notare il libro Cent’anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano, la situazione fu abbastanza difficile fin dall’inizio, soprattutto se si considera il fatto che i coloni non erano dei nullatenenti per i quali l’emigrazione rappresentava un’avventura meno infelice di quella vissuta in patria; la gente che seguì Ricci possedeva già una casa, un piccolo terreno, animali; viveva una vita modesta ma dignitosa e, se lasciò quello che possedeva, lo fece con la speranza di migliorare la propria posizione, con la convinzione certa di poter raggiungere la condizione di stabilità economica che gli era stata promessa.

Dopo l’arrivo dei coloni , i lavori di suddivisione dei lotti vennero svolti, sebbene con molto ritardo, dall’Ispettore delle terre e colonizzazioni.

Fin dal principio vi furono problemi con parte della popolazione locale, in quanto molte famiglie di lavoratori cileni si trovavano nei lotti assegnati ai coloni ed erano molto restii ad andarsene, dopo aver occupato quei territori per anni. Questo fatto provocò, come è prevedibile, dei diverbi accesi anche fra coloni e Impresa, in quanto contribuiva a rendere meno fruttuoso un terreno che già di per sé non era adatto alla coltivazione (36).

Anche la consegna degli animali e degli attrezzi avvenne con un certo ritardo e non fu , fra l’altro, una consegna molto vantaggiosa per i coloni che si videro consegnare animali vecchi, soprattutto i bovini, poco adatti al lavoro dei campi e alla riproduzione.

Alla luce di tutto ciò, ad un anno dall’insediamento del primo gruppo e poco prima dell’arrivo del secondo, i coloni presentarono un reclamo in cui si accusava l’Impresa di Ricci di inosservanza degli adempimenti fondamentali fissati dal contratto di locazione.

 

Nonostante i vari screzi fra i primi coloni e l’Impresa, il progetto di colonizzazione andò avanti. Ricci, nell’autunno del 1904, tornò in Italia a reclutare le altre famiglie di coloni. Ne reclutò 65, pari a 373 persone. In realtà, risultano essere state ingaggiate altre famiglie, non solo per il fatto che alcune di queste all’ultimo momento si ritirarono, ma soprattutto per il fatto che Ricci avrebbe dovuto, per contratto, arruolare un totale di 77 famiglie, raggiungendo così il numero di 100 famiglie.

Prima della partenza, i coloni stipularono il contratto di locazione con Giorgio Ricci, seguendo le stesse modalità del contratto riferito al primo gruppo, sennonché con la differenza che a ciascun capo famiglia venne assegnato un lotto di 50 ettari, pari a venti ettari in meno di quello assegnato ai primi coloni.

Il tragitto che portò il secondo gruppo di famiglie in Cile ricalcò il precedente e la sistemazione nella colonia fu resa altrettanto difficoltosa da una serie di contrattempi ed inadempienze.

Non passò molto tempo che un gruppo piuttosto numeroso di persone fece un reclamo al Ministro d’Italia a Santiago. Dopo la protesta, molti coloni abbandonarono la colonia, trasferendosi in città e cercando lavoro presso dei connazionali. Le famiglie che si trasferirono, nel maggio del 1905, furono in tutto 35. Il gruppo dei nuovi coloni rimasti a “Nueva Italia” prese possesso dei lotti dopo poco tempo, scegliendoli soprattutto tra i confinanti con quelli dei vecchi coloni, in base ai legami di parentela o amicizia, o nella zona boschiva della concessione. Nel frattempo, il governo cileno autorizzò l’Impresa di colonizzazione a sostituire le famiglie che si erano trasferite dalla colonia con altre di origini europee residenti nel paese. Ai primi di settembre, la lista delle famiglie ingaggiate era nuovamente completa.

La facilità con cui il governo diede l’approvazione all’Impresa di Ricci di sostituire le famiglie ribelli con altrettante famiglie di coloni, ci permette di comprendere pienamente come le istituzioni dessero il loro appoggio incondizionato al progetto e soprattutto misero in rilievo l’assenza di obiettivi definiti da parte del governo, il quale sostenne il perseguimento degli obiettivi particolaristici dell’Impresa, senza troppo badare alle lamentele dei coloni insorti.

La situazione che si era creata, grazie alla fuga di molte famiglie dalla colonia, aumentò le antipatie nei confronti dell’impresa di colonizzazione, che in breve tempo, per tutelarsi meglio, pensò bene di costituire una società anonima fra italiani (37).

Gli obiettivi della società, riportati nello statuto, erano svariati: dallo sfruttamento dei terreni fiscali, a favorire la colonizzazione italiana ottenendo concessioni di qualsiasi natura (38), all’affittare o acquistare terreni, edifici, concessioni e vie di comunicazione per sfruttarli e impiantare ogni genere d’industria possibile, comprare e vendere il bestiame e i prodotti agricoli, sfruttare le miniere e i giacimenti di carbone esistenti nei terreni appartenenti alla società, in ultimo costruire ferrovie ed altre vie in modo da favorire lo sviluppo delle attività intraprese.

 

Dopo la nascita della società, si diede il via ad alcuni servizi fondamentali per la colonia, come la costruzione di una scuola, e lo sviluppo di una linea ferroviaria che potesse unire la colonia ai paesi più vicini, in modo da inserirla così in un contesto economico nazionale.

Poco prima della nascita della società anonima, si erano iniziati i lavori per lo sviluppo del centro della colonia, al quale si era dato il nome di Capitan Pastene. Il paese, inaugurato nel 1905, divenne in pochi anni il centro amministrativo e commerciale della colonia. Nella piazza centrale del paese vennero costruiti i primi edifici, fra i quali l’abitazione degli impresari della colonia, un hotel destinato ai visitatori e agli ufficiali del fisco che arrivavano periodicamente, la caserma dei carabinieri e l’ufficio postale e del telegrafo.

Successivamente, Capitan Pastene si estese: vennero costruiti viali, ponti, acquedotti e una scuola; furono anche iniziati i lavori per la costruzione di una ferrovia, ultimati dallo Stato nel 1918.

 

Una delle caratteristiche più salienti che segnò la vita dei coloni italiani fu senza dubbio la frugalità. Nei primi anni di insediamento, i coloni dovettero adeguarsi ad un regime di vita caratterizzato da forti privazioni. Tuttavia questo atteggiamento di frugalità non fu il risultato di una situazione contingente. Questi coloni, provenienti dalle montagne del Frignano, luoghi caratterizzati da una grande povertà, erano abituati alla sobrietà che si ripercuoteva in tutti gli aspetti della vita: nel vestiario, semplice e povero, fatto dalla donna di casa; nell’alimentazione, basata su ciò che il colono riusciva a coltivare; nel duro lavoro dei campi al quale erano abituati, lavoro che iniziava all’alba e terminava al calare del sole, senza distinzione di sesso e di età, e che coinvolgeva l’intera famiglia.

La vita del colono era questa, ed era basata principalmente sul lavoro. Lo stile di vita condizionò anche i rapporti fra le famiglie dei coloni. Il fatto di abitare a grandi distanze dai centri abitati permise una solidarietà molto forte fra di loro che venne, fra l’altro, rafforzata dall’essere in un paese straniero.

Il problema dell’identità culturale è di rilevanza fondamentale, soprattutto se considerato nel lungo periodo. Uno dei veicoli fondamentali di riproduzione della cultura originaria è senza dubbio l’idioma. La mancanza dell’insegnamento della lingua italiana nella colonia, favorì la perdita nel giro di poche generazioni, dell’utilizzo dell’italiano come lingua d’origine. La conseguenza di questa perdita fu una più rapida “cilenizzazione” del colono, che venne, ad ogni modo, ostacolata parzialmente dalla riproduzione di tradizioni che si esprimevano nelle varie celebrazioni e festività che coinvolgevano tutta la colonia.

L’isolamento della colonia, che permise, fra l’altro, la conservazione di alcune caratteristiche peculiari del luogo d’origine (39), permise inoltre una forte coesione di gruppo che si espresse, nel corso degli anni, con la nascita di varie organizzazioni.

Le celebrazioni religiose e le varie festività rappresentarono per i coloni dei momenti molto importanti, in quanto rafforzavano il senso di identità culturale.

Se da una parte i rapporti sociali fra coloni permisero il perpetuarsi di tradizioni italiane, il rapporto che i coloni ebbero con gli abitanti nazionali e gli indigeni Mapuches, seppur molto limitati all’inizio, fecero sì che la colonia si aprisse ad una nuova forma di convivenza e integrazione.

 

Nei primi anni della colonia, i rapporti fra coloni italiani e occupanti nazionali furono piuttosto tesi. Il continuo tentativo da parte dell’impresa di colonizzazione di scacciare gli occupanti cileni dai terreni della concessione diede luogo a contenziosi che sfociarono in aperte ostilità che si risolvettero solo nel tempo.

Il contatto fra i coloni italiani e i Mapuches, invece, acquistò delle caratteristiche singolari. Se nei primi anni i rapporti furono molto sporadici, a causa della diversità di lingua e di cultura, in seguito si limitarono all’imitazione di alcuni aspetti delle attività agricole dei coloni da parte degli indigeni. La descrizione che fa Lomonaco (40) della popolazione Mapuches può darci un’idea della diffidenza e dell’atteggiamento predominante che caratterizzarono i rapporti fra coloni e indigeni:

“…essi sono generalmente bassi di statura, dalle forme tozze e massicce, dalla pelle di un colorito scuro giallastro (...), il loro aspetto non è, in genere, dei più piacevoli. Da giovani sono generalmente sani, forti, robusti e dalle fattezze regolari, ma a misura che avanzano gli anni, il loro volto diviene deforme e ripugnante. (…) I loro occhi sono come spenti e opachi, il loro atteggiamento umile, dimesso e diffidente ad un tempo, quale di paria che si sappiano reietti ed abbandonati e che sfuggano al consorzio umano.

(…) La domanda che intanto sorge spontanea alla vista e al contatto degli attuali araucani, è se essi debbano considerarsi come i genuini discendenti della forte e bellicosa razza araucana, oppure se essi rappresentino una razza degenerata ed avvilita. Questa seconda supposizione mi sembra più conforme alla realtà delle cose e credo pertanto che questa razza non sia più al caso di sentire i benefizi della civiltà, e di assimilarsi e fondersi più oltre col resto della popolazione civile, in mezzo a cui rimane come elemento estraneo ed anormale, come un avanzo di epoche lontane (…).

Non parrà dunque esagerato l’affermare che questo avanzo di popolazione barbara e forte sia destinato, almeno in certe zone, a sparire fatalmente”.

 

La realtà che dovettero affrontare i coloni al loro arrivo fu molto diversa da quella che aveva ispirato il progetto. Il progetto originale degli impresari prevedeva l’istallazione e lo sviluppo delle industrie artigianali (in particolare della produzione del formaggio), che già avevano dato successo nella zona di provenienza dei coloni. Fu a questo fine che Ricci scelse famiglie specializzate nella produzione del parmigiano, le quali portarono dall’Italia gli strumenti e i macchinari necessari.

Inoltre gli impresari avevano progettato, inizialmente, di avviare la coltivazione dell’ulivo, promuovendone le industrie annesse, le fabbriche di insaccati e anche fabbriche di conserve alimentari. Però tutti questi progetti rimasero sulla carta, ben lungi dall’essere messi in pratica. Ciò che impedì l’applicazione di queste attività fu lo scarso realismo dei progetti formulati e soprattutto la conoscenza molto superficiale del luogo che la colonia si apprestava a voler colonizzare. Le due relazioni ufficiali dell’Ispettore Lomonaco sono la testimonianza di quanto poca fosse la conoscenza effettiva di quei territori e del loro utilizzo, e di come i calcoli sulla rendita dei terreni fossero basati, in linea di massima, su analisi superficiali, senza la considerazione dovuta per quanto riguarda il lungo periodo:

“…tutta la concessione consiste in una specie di grande vallata centrale racchiusa da due serie di brevi colline… I terreni della concessione sono stati da vari anni disboscati e coltivati, e ciò toglie alquanto alla loro fertilità assoluta; cosa che del resto accade in tutte le zone messe da qualche tempo a coltivazione, ma si sa anche che i terreni recentemente disboscati sono, nel Cile e nell’America in genere, d’una fertilità prodigiosa, poiché la cenere degli alberi bruciati costituisce per i primi anni un ingrasso portentoso, sicché i raccolti che allora si ottengono sono straordinariamente abbondanti… La concessione è inoltre abbondantemente provvista di acqua potabile… Nella parte boschiva della concessione, rappresentata dalla ramificazione della Cordigliera, esistono numerose varietà di querce, rovere e faggi… inoltre vi è un eccellente miniera di carbone…”.

Effettivamente, nel breve periodo, i terreni destinati ai coloni, o per lo meno, una parte di essi, furono abbastanza produttivi; le coltivazioni tradizionali che vennero intraprese i primi anni, di frumento, orzo, patate e piselli, diedero discreti risultati, poiché i raccolti erano garantiti dalla fertilità del terreno non ancora sfruttato e dalla concimazione naturale derivante dalla prima bruciatura della vegetazione spontanea. L’abbattimento degli alberi della foresta, che fu necessaria nella maggior parte dei lotti, per poter avviare i terreni alle coltivazioni, fornì molto legname ai coloni. Inizialmente esso fu destinato alle necessità interne, poi, col passare degli anni, venne destinato alla vendita occupando un posto sempre più rilevante nell’economia della colonia.

I progetti iniziali di poter avviare delle coltivazioni che dessero dei buoni rendimenti si rivelarono fallimentari, e ciò nel giro di pochi anni. I terreni, appartenenti tutti alla VI e VII categoria (da pascolo e forestali), vennero coltivati in modo intensivo e in pochi anni diedero il via a quel processo di erosione che portò all’abbandono, da parte della colonia, dell’attività agricola come attività principale.

Verso gli anni ’40, l’impoverimento del suolo obbligò i coloni a volgere l’economia verso attività di tipo forestale.

Dagli anni ’40 ai nostri giorni la colonia non è cambiata molto. Il processo di sviluppo economico e la conseguente ricchezza che si auspicava dopo i primi anni della fondazione, divenne un sogno sempre più lontano da realizzare. La mancanza di contatti con i parenti in Italia, dopo la prima generazione, non permette di analizzare, dall’Italia, i vari processi di sviluppo della colonia nei decenni; mancano inoltre studi cileni che possano riempire questo lasso di tempo di oltre cinquant’anni; eppure nonostante tutto questo tempo, la colonia non sembra aver cambiato uno stile di vita che risale a tempi lontani.

L’idea che può farsi un visitatore, andando a Capitan Pastene, è quella di un paese che si è sviluppato con un ritmo molto più lento di quello che ha invece caratterizzato il luogo di esodo in Italia dei primi coloni. La vita quotidiana, i rapporti con la gente e il ritmo dell’economia, a Capitan Pastene, sembrano quelli di un’Italia di cinquant’anni fa.

Capitan Pastene è attualmente un paese che si sta aprendo alle varie prospettive sia di sviluppo economico sia di integrazione socio-culturale, sebbene sia ancora molto legato ai modi di vita e alle tradizioni passate.

Il paesaggio dominato dalle colline boscose e dalle strade in terra battuta fa da sfondo ad un luogo dove la vita non è ancora stata perturbata dallo sviluppo frenetico tipico di una città. Le case di Capitan Pastene, costruite per la maggior parte in legno, sono modeste ma ben curate, le strade, attraversate quotidianamente dai camion che trasportano il legname, sono tutte strade battute, l’asfalto non ha ancora preso il sopravvento; qui, le poche macchine cedono il passo ai carretti trainati da buoi, la televisione e il telefono non sono alla portata di tutti.

L’economia di Capitan Pastene ruota attorno all’attività legata alla produzione del legname e alle attività indotte, l’agricoltura è ormai quasi del tutto trascurata. Grande rilevanza, in una economia come questa, sono le attività a conduzione familiare che permettono alla maggior parte degli abitanti un’esistenza modesta ma dignitosa. Sebbene il divario fra lo sviluppo di Capitan Pastene e le città circostanti sia tangibile, non si deve pensare che sia un paese povero. Le possibilità di espansione economica ci sono.


 

4.7. IL PROGETTO DI RIAVVICINAMENTO FRA CAPITAN PASTENE E PAVULLO

L’iniziativa di riprendere i contatti, ormai persi da tanti decenni, fra la comunità di Capitan Pastene e la comunità di Pavullo è di fatto un’iniziativa molto recente, concretizzatasi con l’appello di aiuto che la comunità cilena fece giungere alla Consulta Regionale per l’Emigrazione ed Immigrazione nel maggio del 1989, e a cui seguì una prima visita della delegazione italiana a Capitan Pastene.

La consapevolezza del valore etico e sociale di questo riavvicinamento e l’impegno istituzionale conseguente sono stati basilari per dar vita a un progetto di Gemellaggio tra i due paesi, che venne celebrato a Capitan Pastene nel novembre del 1992 e a Pavullo nel nell’aprile del 1993.

Il processo di riavvicinamento ha interessato fin dall’inizio l’aspetto socio-culturale, ma non ha trascurato le iniziative di carattere economico, volte a promuovere un futuro sviluppo di attività agroalimentari e di opere infrastrutturali a Capitan Pastene.

Tuttavia, il prolungato isolamento di Capitan Pastene e il divario economico che divide le due comunità ostacola lo sviluppo di un rapporto equilibrato fra i membri dell’una e dell’altra. Da qui parte il compito dei vari organi istituzionali, interessati a promuovere e stimolare iniziative che abbiano a riferimento tutta la comunità e non solamente determinati gruppi economici emergenti.


 

4.8. CONCLUSIONI

Il caso della colonia “Nueva Italia” è abbastanza singolare se si considerano i risultati che ha invece ottenuto l’immigrazione italiana nel resto del Cile. Il rapido inserimento che ha consentito alla maggior parte degli italiani emigrati in Cile, nel corso dei decenni, di farsi uno spazio sempre più grande sia nell’economia sia nei vari ambiti sociali e culturali, sembra che abbia toccato questa colonia solo parzialmente, e ad ogni modo, solamente in questi ultimi anni.

Le caratteristiche dell’immigrazione italiana in Cile, ovvero la rapida assimilazione culturale dell’elemento italiano nella società cilena, il suo inserimento prevalentemente concentrato nei settori più dinamici dell’economia e la forte attrazione verso i centri metropolitani, sembrano non rispecchiarsi affatto con lo stile di vita “rurale” che caratterizza la colonia di Capitan Pastene.

D’altronde non si può dimenticare che le origini di questa colonia risalgono proprio ai progetti di colonizzazione agricola intrapresi dal governo cileno alla fine del secolo scorso, e che risultarono, in linea di massima, fallimentari. Quanto influirono inoltre, in questa colonizzazione, gli interessi particolaristici del suo promotore, si è già avuto modo di vederlo.

Il forte isolamento, protratto nei decenni, a cui furono soggetti gli abitanti della colonia fu sicuramente alla base dello sviluppo lento ed “alternativo” di questa colonia, obbligando gli stessi a fare leva sulle proprie capacità di adeguamento.

Ma se, dal punto di vista economico, questo isolamento ha causato una arretratezza notevole, sotto il profilo culturale si è avuta una forte conservazione delle tradizioni italiane, che fanno di questo paese “…un paese con lo spirito italiano inserito nel cuore dell’Araucania”.

Ed è anche a partire da queste considerazioni che è di fondamentale importanza il progetto, attuato dalle diverse istituzioni coinvolte, nel far sì che questo gemellaggio possa fare da ponte fra due mondi così simili fra di loro.


 



 

APPENDICE: TABELLE


 

Emigrazione permanente e temporanea all’estero: Modena, Emilia Romagna e Italia (1876-1913). La tabella è tratta dal libro “Modena” di Giuliano Muzzioli.


 

Triennio

Modena

Media annua

Modena

x 100.000

abitanti

Emilia R.

x 100.000

abitanti

Italia

x 100.000

abitanti

1876-78

285

102

156

365

1879-81

605

229

247

447

1882-84

1.349

483

283

560

1885-87

886

318

239

633

1888-90

1.978

678

415

849

1891-93

1.141

409

375

895

1894-96

1.872

671

532

967

1897-99

2.223

796

778

713

1900-02

5.626

1.782

1.077

1.455

1903-05

5.807

1.839

1.271

1.751

1906-08

6.704

2.123

1.620

2.032

1909-11

4.687

1.328

1.225

1.782

1912-14

4.014

1.137

1.219

1.984


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

EMIGRAZIONE COMUNI CIRCONDARIO DI PAVULLO (dal libro Cent’anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano)


 

Anno

Fanano

Fiumalbo

Frassinoro

Lama M

M.fiorino

1900

391

76

388

162

262

1901

742

249

388

162

262

1904

653

110

233

275

181

1905

538

127

402

341

491

1906

544

177

398

398

471

1907

442

163

383

334

438

1910

391

199

282

229

226

1911

190

153

276

222

340

1912

350

190

215

283

264

1913

200

154

283

234

311

1914

254

101

143

118

91

1918

13

0

6

9

24

1919

118

59

140

141

309

1920

284

73

210

221

361


 


 

Anno

Pavullo

Pievepelago

Polinago

Riolunato

Sestola

1900

180

238


 

91

220

1901

323

308


 

99

302

1904

406

218

105

68

227

1905

381

275

164

121

237

1906

505

246

126

143

247

1907

493

266

178

101

225

1910

402

342

139

215

423

1911

305

185

108

134

168

1912

379

377

70

99

99

1913

220

162

94

76

56

1914

142

136

33

27

146

1915

64

58

18

33

16

1918

18

3

7

3

11

1919

82

106

87

54

50

1920

205

170

89

57

93


 


 


 

Dati relativi alle RIMESSE degli emigranti (dal libro Cent’anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano), anno finanziario 1909-1910: esse superarono i due milioni di lire. Gli importi erano così suddivisi tra i vari comuni:


 

COMUNE

IMPORTO

ZONA DI PROVENIENZA

Frassinoro

321.770

America del Nord, California, Brasile, Francia, Africa francese, Inghilterra, Asia, Russia, Turchia

Pievepelago

264.361

America del Nord e del Sud, Centro Africa, Germania

Fanano

255.366

Stati Uniti, Brasile, Francia, Svizzera, Germania

Fiumalbo

248.789

America del Nord, Centro e Sud, Germania, Africa, Francia

Lama Mocogno

183.200

Francia ,Svizzera, America del Sud, Russia, Ungheria, Prussica, Siberia

Montecreto

158.095

America del Nord, Svizzera, Germania, Francia

Montefiorino

158.095

America del Nord, del Sud, California, Francia, Africa francese, Inghilterra, Russia, Asia, Turchia

Sestola

150.000

Stati Uniti, Brasile, Francia, Svizzera, Germania

Pavullo

146.726

Stati Uniti, Francia, Svizzera, Germania

Riolunato

93.931

Francia, Algeria, Tunisia, Costa d’Avorio, Guinea Francese, America del Sud e del Nord

Polinago

14.530

Francia, Svizzera, Ungheria, Prussia, Americhe


 


 


 


 

TABELLE : ELABORAZIONE DELLO STUDENTE

Comune di PALAGANO


 

CONTINENTE


 

NAZIONE

LOCALITA’

EMIGR

Europa


 


 


 


 


 


 


 

America


 


 


 


 


 


 


 


 

Francia


 


 


 


 

Svizzera

Belgio

Regno Unito

Usa


 


 


 

Canada

Argentina


 

Venezuela

Carqueiranne e Var

Nizza - Alpi Marittime

Parigi – Lille

Corsica

Lione

Cantone Ticino e tedesco

Uccle

Londra

Higwood - Illinois

Highland Park - Illinois

Michigan

New York

Ottawa

Buenos Aires

Rosario

Maracaibo


 

60

50

35

20

25

30

28

14

15

15

5

5

6

15

10

10


 

Cont. nuovo

Australia

Melbourne

15


 


 


 


 


 


 


 

Comune di FRASSINORO


 

CONTINENTE


 

NAZIONE

LOCALITA’

EMIGR

Europa

Francia

Belgio

Svizzera

Cardanne

Charleroi

-

100

60

70

America

Usa

Uruguay

Argentina

Venezuela

Canada

Chicago

Montevideo

Cordoba

Maracaibo

Montreal e Regina

20

10

10

20

20

Africa

Marocco

Casa Blanca

9

Cont. nuovo

Australia

Perth

20


 


 

Comune di PIEVEPELAGO


 

CONTINENTE


 

NAZIONE

LOCALITA’

EMIGR

America

Usa

Highwood (gemellato)

Highland Park

3.000

1.500


 


 

Comune di FIUMALBO


 

CONTINENTE

NAZIONE

LOCALITA’

EMIGR

Europa

Francia

Belgio

Il Var

Bruxelles

20

7

America

Usa

Illinois

15

Africa

Sud Africa

Pretoria

4


 



 


NOTE

 

1 Ercole Sori, Emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979.

 

2 In Italia il dibattito sui pro e i contro dell’emigrazione ebbe una grande eco sia attraverso la stampa che nei dibattiti parlamentari. I più accesi sostenitori videro nel fenomeno emigratorio una valvola di sicurezza che, attraverso la diminuzione dell’offerta di lavoro, migliorava gradualmente le condizioni di lavoro per la diminuita concorrenza delle braccia. Uomini come il Sonnino, Nitti e prima di essi Leone Carpi, propugnarono costantemente l’emigrazione e il colonialismo emigratorio italiano come soluzione alla questione contadina. Sull’altro versante, invece, vi erano le pressioni dei gruppi agrari che chiedevano ostinatamente delle restrizioni all’espatrio in modo da tutelare i propri interessi. Inoltre vi era tutta una serie di posizioni intermedie, sia laiche che cattoliche, che premevano per la tutela dell’emigrante. Effettivamente la legislazione italiana riguardante la tematica emigratoria, al contrario degli altri paesi europei, fu sempre ambigua. La legge del 1888 fu di fatto un compromesso, poiché sanciva la libertà emigratoria vigilata, introducendo la figura dell’agente e sub-agente di emigrazione, tenendosi però a un livello molto basso sul terreno della protezione dell’emigrante. Solo nel 1901 la legge sull’emigrazione venne riformulata in termini più completi dando più garanzie all’emigrante e regolamentando in maniera più organica tutti gli aspetti legati al fenomeno emigratorio e al controllo su di esso da parte delle autorità preposte, istituendo il Commissariato generale dell’Emigrazione alle dipendenze del Ministero degli Esteri , ispettori dell’emigrazione viaggianti, la figura del medico di bordo, uffici di protezione e regolamentando la figura degli agenti e dei vettori marittimi. Il dibattito è riportato in maniera molto sintetica ma chiara nel saggio di Francesco Malgeri, La tutela legislativa dell’emigrante e l’apporto dei cattolici in Scalabrini tra il vecchio e il nuovo mondo. Atti del Convegno Storico Internazionale (Piacenza, 3-5 dicembre 1987) a cura di Gianfranco Rosoli. CSER, Roma, 1989. Per un ulteriore approfondimento un utile apporto viene dato Antonio Perotti , La società italiana di fronte alle prime migrazioni di massa , CSER, ed. Morcelliana, 11-12, 1968. PP: 3-78.

 

3 La qualità e la quantità di cibo della popolazione del Frignano fu sintomatica di un tenore di vita molto basso. I pasti erano frugali e spesso insufficienti, e l’alimento principale era la polenta di granoturco o di castagne. Le castagne erano alla base dell’alimentazione. Il pane era quasi sempre di mistura, la carne veniva mangiata molto raramente e ciò valeva anche per il vino, entrambi beneficio unico dei ricchi. In sostanza l’alimentazione, a prescindere dalla quantità, che il più delle volte era scarsa, aveva un contenuto proteico inadeguato al fabbisogno del contadino.

 

4 Interessanti e rilevatori sulle condizioni di vita degli abitanti nella zona del modenese e del Frignano sono i libri rispettivamente dell’Amministrazione di Pavullo, Cent’anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano, Pavullo 1993; e Ferdinando Piccioli, La morte a prestito, un secolo di emigrazione a Verica. Edizione Humanitas, 1982.

 

5 Adolfo Galassini, Usi e Costumi, in, l’Appennino Modenese, MO, 1895.

 

6 Tratto da A. Simonini, M. Bacci, Il crepuscolo della civiltà contadina, Bologna , 1983, in Cent’anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano, Pavullo, 1994.

 

7 Inoltre, maturando tardi, doveva essere tagliato prima del dovuto per lasciare posto alla semina del frumento, e così, non essendo maturato spontaneamente, veniva ammassato nei granai in modo da maturare; così facendo era spesso soggetto a deterioramento, concausa di una malattia quale la pellagra, che fortunatamente non raggiunse mai livelli preoccupanti.

 

8 Bisogna sottolineare che, essendo il contadino di montagna proprietario di piccoli terreni, non poteva produrre più della sussistenza e non poteva investire in bestiame per produrre più carne e latte che di quello necessario per la famiglia, o poco più.

 

9 L’unica strada di una certa rilevanza, costruita comunque ben oltre gli inizi del secolo, fu la via Giardini, mentre numerose furono le progettazioni che videro il loro compimento solo decenni dopo.

 

10 Il minifondo era spesso risultato di una continua suddivisione dei terreni di famiglia fra i figli. La figura dominante era quella del contadino. Il censimento del 1901, relativo ai dati riguardanti la provincia di Modena, appurò che gli agricoltori del Circondario di Pavullo che conducevano terreni propri erano ben 12.158 su un totale di 19.271, pari al 63%. In Cent’anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano. Op. cit. pp. 47-48.

 

11 Interessante a questo proposito la Relazione Annuale del Comizio Agrario di Modena, del 1904, nella quale viene riportato:

…..ebbimo per contro nel 1904 una produzione deficentissima, specie nei cereali. ….Prendendo le mosse dal prodotto principale, dal re dei cereali, notiamo che i terreni non ebbero durante l’autunno un andamento di stagione troppo propizio alle lavorazioni, alla semina ed alla nascita del frumento, sicchè subito i seminati si rivelarono assai radi. L’invernata dolcissima, priva affatto di geli e nevicate… umida, invece, per piogge prolungate a primavera molto inoltrata… non permise alle zolle di scindersi e sfarinarsi; rimanendo così il terreno in pessime condizioni, venne a mancare anche l’accestimento del grano… Cessate tutto di un tratto le piogge e l’umidore, si appalesò fin da maggio un caldo eccessivo che continuò per tutta l’estate. Il frumento ebbe quindi rapida e repentina maturazione, dannosa alla quantità ed alla qualità del prodotto il quale limitavansi a quello della pura spica nata sullo stelo maestro, a cagione della mancata formazione di culmi secondari…Il raccolto fu quindi notevolmente inferiore a quello del 1903… Il prodotto del grano nel 1904 fu di qualità scadente, pel fatto che le granella furono stremenzite per il soverchio calore…ecc.

Interessanti sono anche gli atti della Prefettura di Modena riguardanti le sovvenzioni straordinarie e i sussidi ai Comuni, Consorzi e alle Province per danni derivati da frane e alluvioni (1903) a Sestola, Fanano, Pavullo, Savignano, Vignola ecc… che in quegli anni si verificarono non di rado danneggiando i raccolti; in Affari Generali Comunali, 1902-1912, Atti della Prefettura 457, Archivio di Stato di Modena.

 

12 Gli apporti statistici provengono dalle statistiche regionali dell’Unione Regionale Camere di Commercio CERES Bologna, e vengono menzionati nel libro curato da Innocenzo Sigillino, Emigrare dall’Emilia Romagna, Patronato ACLI-ENAIP-ENARS, 1976.

 

13 Adolfo Galassini, Usi e Costumi, in, L’Appennino Modenese, Modena, 1895.

 

14 Adolfo Galassini, Usi e costumi, in, L’Appennino Modenese, MO, 1895.

 

15 Ministero per l’industria, il commercio e il lavoro, ufficio centrale di statistica, Statistica dell’Emigrazione italiana per l’estero in 23 volumi fra il 1876 e il 1924.

 

16 Rassegna Frignanese, 1981-82-83-84, anno XXIV – N. 24, p. 273.

 

17 Ibidem, p. 274.

 

18 Ibidem, p.274.

 

19 Ibidem, p.274.

 

20 Adolfo Galassini, Usi e costumi, in, L’Appennino Modenese, MO, 1895.

 

21 Rassegna Frignanese, 1985-1986 ANNO XXV-N. 25, da testimonianza di Bellisi Mary (Highwood), Mike Tonioni (Highland Park), Don Angelo Passini (Pietracolora, che per diversi anni ha svolto la missione sacerdotale nelle comunità dei nostri emigranti nello stato dell’Illlinois e in quello della California)

 

22 Pietro Alberghi, Quarant’anni di storia montanara. L’Appennino Modenese-Reggiano dal fascismo alla rinascita, Modena, 1980.

 

23 Ibidem, p.52.

 

24 Dina Albani, Il Frignano, Bologna, 1964.

 

25 Sotto la Ghirlandina, 25 maggio 1961.

 

26 La Luna, numero 12 – aprile 1996 .

 

27 La partenza avvenne appena terminata la costruzione del nuovo convento delle suore francescane di Palagano, a cui contribuirono diversi volontari, e dopo aver terminato una campagna di taglio del fieno con una falciatrice di proprietà del sacerdote.

 

28 Troviamo un compendio della storia della colonia NUEVA ITALIA nel libro pubblicato dall’Amministrazione comunale di Pavullo, Cent’anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano, Pavullo, 1993.

 

29 I dati statistici riportati sono stati tratti da uno studio di M.Morner, Adventures and proletarians. The story of migrants in Latin America, Pittsburgh 1985, in: Un quadro globale della diaspora italiana nelle Americhe, a cura di Rosoli Gianfausto, in Altreitalie, IV, 1992, pp. 8-24.

 

30 I dati riportati sulla percentuale di stranieri presenti nelle diverse aree del continente latinoamericano si trovano nel saggio “Emigrazione spontanea o assistita? Un vecchio dilemma riproposto dagli insediamenti agricoli italiani in Cile”, a cura di Luigi Favero, in “Il contributo italiano allo sviluppo del Cile”, ed. Fondazione G. Agnelli, 1993 e nello studio di Valeria Maino, “Caracteristìcas de la Inmigraciòn Italiana en Chile 1880-1987”. Santiago de Chile, 1988.

 

31 Sebbene la storia di questa colonia sia abbastanza singolare, finora sono stati fatti pochissimi studi in merito. Solo verso la fine degli anni ’80, gli studiosi cominciarono ad interessarsi al caso. Da allora sono uscite varie pubblicazioni che cercano di ricostruire la storia di questa emigrazione. Un libro molto interessante, sebbene incompleto per quanto riguarda i dati delle prime famiglie italiane emigrate è quello di J.C. Batarce-G. Venturelli Abad: “Nueva Italia” un ensayo de colonizacion italiana en la Araucaria, 1903-1906. Ediciones Universidad de la Frontiera, 1987. Altri studi sono in attuazione in Italia, grazie all’interesse risvegliato dalla Consulta Regionale Emigrazione Immigrazione dell’Emilia Romagna. Si prenda ad esempio il libro pubblicato dall’Amministrazione comunale di Pavullo, Cent’anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano, Pavullo 1993, nel quale vi è un compendio della vicenda della colonia italiana in Cile; inoltre, molto interessante è lo studio sulle fonti notarili di Antonio Parenti, “Capitan Pastene” brevi cenni storici di una emigrazione dimenticata, Pavullo, 1994.

La colonia, attualmente, ha circa duemila abitanti, quasi tutti di origine italiana.

 

32 E. Sori, Emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, BO, il Mulino, 1979.

 

33 Ferdinando Piccioli, “La morte a prestito, un secolo di emigrazione a Verica”, ed. Humanitas, 1983.

 

34 Alfonso Lomonaco, Bollettino Emigrazione, 1905, p. 20.

 

35 Del resto non molto dissimili dai casermoni di accoglienza che si trovavano nei porti di sbarco dell’Argentina e del Brasile e che servivano per lo smistamento degli emigranti prima di essere portati nelle varie piantagioni a lavorare.

 

36 La questione della fertilità del terreno è di fondamentale importanza se si pensa che i coloni erano stati ingaggiati con la promessa di lavorare terreni fertilissimi e ancora vergini. In realtà il territorio era prevalentemente boschivo e adatto al pascolo.

 

37 La società nacque il 18 ottobre 1905, con un capitale di 1.500.000 pesos, diviso in 15.000 azioni, di cui 4.000 vennero date ai concessionari in pagamento della loro cessione, e le altre 11.000 vennero divise fra azionisti. Questa società venne chiamata Società colonizzatrice Agricola e Industriale Nuova Italia. Essa si pose come obiettivo principale l’utilizzazione dei 63.000 ettari circa che, dopo l’assegnazione dei lotti alle 100 famiglie di coloni, sarebbero rimasti di sua proprietà, impiantando e sviluppando in quel vasto territorio le industrie agricole e minerarie, nonché la pastorizia.

 

38 Ricordiamo un altro progetto di colonizzazione intrapreso dalla Società, dal quale nacque la colonia “Nuova Etruria”, circa 200 Km a sud di Valdivia. La colonia non dette però i risultati sperati. I coloni, adescati da vantaggiose offerte di vendita, finirono col disfarsene. Oggi tutti i terreni di quella concessione (circa 30.000 ettari) sono passati in mani cilene.

 

39 Tutt’oggi la cucina dei discendenti dei primi coloni, a Capitan Pastene, ha conservato parecchi piatti italiani, tipici del modenese: le crescente fatte con le tigelle(stampi di sasso fra i quali viene messo l’impasto) e i tortelli. La conservazione del prosciutto e di alcuni formaggi avviene con metodi importati dai primi coloni.

 

40 Alfonso Lomonaco, Bollettino emigrazione, 1905, pp. 35-40.

 

 


BIBLIOGRAFIA


 Schede

Storia