La Val Dragone nella storia |
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Storie
d'alpini: la lunaga via del ritorno
Gli ultimi giorni in Russia di quello che restava
del Corpo d'Armata Alpino
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Immagini del ritorno degli alpini superstiti (Archivio A. Corti) |
L'arrivo a Merano (Archivio A. Corti) |
Dopo il
combattimento di Nikolajewka, la Tridentina continuò la marcia , insidiata dai
partigiani, fino a raggiungere il 31 gennaio 1943 Schebekino, sempre seguita da
una moltitudine di feriti, congelati, dispersi di ogni nazionalità.
A Belgorod avvenne lo smistamento dei sopravvissuti e si fece la tragica conta
degli Alpini usciti dalla Sacca.
Le cifre sono tristemente eloquenti, dei circa 52.000 Alpini che avevano
iniziato la ritirata 15 giorni prima, 1.290 ufficiali e 39.720 fra sottufficiali
e soldati non ce l'avevano fatta.
Il 79% degli effettivi del Corpo d'Armata Alpino era caduto o disperso
nell'immensa steppa russa, solo 6.400 uomini della Tridentina, 3.300 della Julia
e 1.300 della Cuneense erano sulla via del ritorno.
Seppur a prezzo di enormi perdite, il Corpo d'Armata Alpino era rimasto
imbattuto in terra di Russia, ma come ci racconta il reduce artigliere Alpino
Aldo Corti, l'odissea e le beffe non si conclusero quel giorno.
"I giorni che seguirono l'uscita dalla sacca furono comunque atroci, oltre agli
attacchi dei partigiani e ai bombardamenti aerei che continuarono per alcuni
giorni, il Generale Inverno continuava a tenerci compagnia con le solite
temperature a - 40 °C che ci obbligavano comunque a cercare riparo nei villaggi
sul nostro cammino.
Gli Alpini continuavano a morire di fame e freddo, nonostante qualche lancio di
viveri dagli aerei germanici che alleviava un po' le nostre sofferenze.
Proprio il 30 gennaio io e Egidio Coriani, vedendo che l'Alpino Mediani aveva le
gambe in cancrena, riuscimmo a caricarlo su una delle poche slitte superstiti
trainate dai muli, ma non ce la fece lo stesso, spirò poco dopo.
Arrivati a Schebekino nella mattinata del 31 gennaio, trovammo un posto di
ristoro con gli infermieri della sussistenza che ci aspettavano, io ricevetti
qualche medicamento, ma lì morì di stenti il mio commilitone Sisto Rioli da
Lago, che gli stessi infermieri non cercarono nemmeno di caricare sui camion in
arrivo poiché già aveva la febbre alta e le gambe in cancrena.
Ad ogni camion in arrivo, fosse tedesco o italiano, accadevano scene indicibili
di uomini ormai diventati bestie, tutti cercavamo di salirci sopra, alpini,
tedeschi, ungheresi, chiunque aveva ancora un briciolo di energia per farsi
largo in mezzo alla calca dei disperati.
I tedeschi, dal canto loro, permettevano solo ai propri commilitoni di salire,
ed io che mi ero aggrappato a uno dei loro camion, ricevetti un colpo con un
calcio di fucile che mi fratturò il mignolo.
Questo è il souvenir che mi hanno lasciato gli alleati germanici che durante la
ritirata ci offrivano il loro cognac per andare a combattere al loro posto
aprendogli la via della fuga nella massa degli sbandati.
Fu così che io ed Egidio, gli unici ormai rimasti insieme del Comando gruppo del
Val Camonica, continuammo la marcia per altri 20 km fino ad arrivare a Belgorod
dove venimmo smistati.
Dopo lo smistamento dei sopravvissuti , Egidio mi cedette il suo posto su un
camion Lancia appena arrivato e io fui l'unico tra i commilitoni di Montefiorino
ad essere portato all'ospedale, le mie condizioni di salute erano infatti
critiche ed il congelamento al piede rischiava di trasformarsi rapidamente in
cancrena.
Fu così che mi allontanai dall'inseparabile Egidio Coriani che vidi nuovamente
solo dopo il rientro a casa.
Così fui portato al terzo piano dell'Università di chimica di Kharkov che era
nel frattempo stata trasformata in ospedale militare. Qui erano ricoverati i
feriti e ammalati più gravi che non potevano essere trasferiti più indietro
nelle retrovie.
Da lì ebbi la possibilità di inviare a casa il 1° febbario 1943 due cartoline di
posta militare in cui scrivevo a mia moglie e mio padre che eravamo usciti dalla
sacca in 8 di Casola nel Frignano appartenenti allo stesso reparto, di cui
Pasquale Corti, i fratelli Albicini, Egidio Coriani, Serradimigni Adolfo,
Maffoni Ruggero, Serradimigni Bortolo.
Mia moglie e mia sorella Luisa che andavano tutte le sere alla posta a cercare
nostre notizie, la ricevettero solo il 10 febbraio ed ebbero l'opportunità di
comunicarlo alle altre famiglie.
Kharkov era situata ad oltre 600 km dalla linea del Don ed ben oltre il Dnepr,
il fiume che poteva essere considerato la nuova linea difensiva, per cui
credevamo di essere in un luogo abbastanza sicuro.
Eppure quando ogni mattina mi affacciavo alla finestra dell'ospedale, vedevo le
truppe tedesche sfilare da Est verso Ovest, e non il contrario. Ed infatti
l'amara sorpresa l'avemmo la mattina del 7 febbraio, quando un infermiere ci
venne ad urlare che i russi erano già alla stazione sud e che dovevamo
arrangiarci da soli...
Nel generale "Si salvi chi può", mi vestii rapidamente con la lacera divisa
ancora infestata di pidocchi, mi arrotolai ai piedi gli stracci che dovevano
fungere da scarpe e mi precipitai quindi giù per la tromba delle scale dove tra
un generale sconforto assistetti a scene agghiaccianti di malati e feriti più
gravi che si trascinavano letteralmente per le scale pur di sfuggire all'Armata
russa.
Nella piazza principale della città, non avendo alcun commilitone alpino con me,
decisi di aggregarmi al gruppo di sbandati più numeroso ed ebbi la fortuna di
essere tra quelli che non incontrarono sul proprio cammino i famigerati carri
T34...
Dopo aver camminato tutto il giorno e la notte al seguito della colonna che si
trascinava esausta nella neve ed essermi cibato di quel poco di miele che mi era
rimasto nello zaino, arrivammo la mattina dell'8 febbraio ad Antirka, località a
20 km di distanza dove dopo essere stati di nuovo smistati fummo caricati su un
treno passeggeri fino a Brest, dove arrivammo 2 giorni dopo.
Era il 10 febbraio 1943 ed in quella località fummo introdotti in un grande
hangar dove la croce rossa tedesca ci fece una disinfezione totale spruzzandoci
addosso un forte getto a vapore che uccise i pidocchi ma ci lacerò quel poco che
restava delle nostre divise.
Il giorno stesso, dopo averci rifocillato alla meno peggio, ci ricaricarono su
un nuovo treno passeggeri dove trascorremmo ben 5 giorni per percorrere la
strada del ritorno fino a Merano, poiché dovevamo sempre dare la precedenza ai
treni militari tedeschi ed eravamo quindi obbligati a fare lunghe soste nelle
stazioni secondarie.
In quei giorni di viaggio eravamo felici di avercela fatta, anche se non
immaginavamo ancora l'entità della tragedia che la ritirata aveva rappresentato
non solo per le divisioni alpine, ma anche per le altre divisioni italiane.
Le notizie anche a casa erano poche, tant'è che il Duce aveva rotto l'omertoso
silenzio solo il 3 febbraio 1943 annunciando dolorosamente alla radio che solo
10.000 uomini del glorioso Corpo d'Armata Alpino erano usciti dalla Sacca.
Fu la mattina del 15 febbraio che arrivando il nostro treno alla stazione di
Merano mi sentì finalmente a casa. Ad aspettarci c'era la Banda musicale e tutte
le autorità fasciste, ma quando ci videro scendere dai vagoni talmente laceri e
malandati fecero suonare l'allarme antiaereo, affinché la popolazione civile non
potesse vedere il nostro misero stato.
Rimasero sulla banchina i reparti sanitari che ci smistarono nei vari alberghi
adibiti a ricovero truppe, chi al Bellavista, chi all'Hotel Emma.
Io fui mandato al Bella Vista, e lo stesso giorno alla prima visita medica mi
pesarono. Ero ridotto a 39kg. Quando ero partito per la Russia 7 mesi prima ne
pesavo 70.
Cercarono di vestirci, ma non avevano sufficienti uniformi, e mi diedero così
solo un paio di scarpe talmente grandi che non riuscivo quasi a camminarci.
Incontrai subito Frassineti Giuseppe di Buffignano che essendo attendente di
fanteria alla Caserma Maia Bassa, tutti i giorni andava a cercare i
sopravvissuti di Casola alla stazione dei treni o nei ricoveri.
Gli chiesi così il 16 febbraio di telegrafare a mio padre che ero vivo ed ero in
degenza a Merano.
Fu così che il 18 febbraio mio padre arrivò in treno a Merano ed entrando
all'hotel Bellavista, Olimpio rimase scosso nel vedere un carretto di arti
incancreniti amputati che veniva portato fuori.
Appena vidi passarmi accanto mio padre che mi cercava da una stanza all'altra
della casa di cura, lo chiamai forte.
Ma lui non mi riconobbe. Ero veramente ridotto a pelle e ossa.
Dopo gli abbracci commoventi, mi dedicai a uno di quei deliziosi budini al
cioccolato della mamma Pia di cui andavo ghiotto e che mio padre mi aveva
portato.
Ne feci indigestione, e se non mi avessero fatto una puntura, sarei morto la
notte stessa dopo aver fatto tutta quella fatica per tornare a casa.
Ma così non fu, e finalmente il 1°marzo, seppur malconcio, fui dimesso e potei
tornare a casa con una licenza di 1 mese...."