La Val Dragone nella storia |
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Don
Luigi Braglia
Santa
Giulia nei Monti
(breve
racconto di una grande strage)
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La
presente narrazione di fatti storicamente avvenuti e documentati, vuole essere
un contributo alla cultura della storia italiana relativamente al periodo della
occupazione tedesca dell’Appennino Emiliano.
Il
nostro cuore non dimenticherà mai quelle cose che i nostri occhi hanno veduto
PREFAZIONE
Sia
la mia opera di conforto, così come sia di conforto la carità di quel Cristo
che è morto innocente in croce affinché tutti gli uomini siano fratelli nella
pace degli animi e nella fecondità del lavoro.
(Monchio
di Modena)
I
torrenti Dragone, Dolo e Rossenna,affluendo insieme nel fiume la Secchia
alla Volta di Saltino, formano l'isolotto di Santa Giulia.
Una
catena di piccole montagne ne delinea la spina dorsale di cui i punti più
elevati sono il Cantiere, il monte di San Martino Vallata e Santa Giulia.
Il
colle di Santa Giulia, che si eleva a 935 metri sul livello del mare, domina
dunque le vallate dei tre torrenti: Dragone, Dolo, Rossenna e del fiume Secchia,
e ivi, per volere della Contessa Matilde, per altre vicende assai famosa, fu
edificata fin dal 1100 la piccola chiesa di Santa Giulia: capolavoro di arte
romanica basilicale, con tre absidi in pietra squadrata, con capitelli di
raro valore e le travature scoperte. Questa chiesa, nel secolo XII, fu eretta in
Pieve.
Un
antico documento del 1197 fa menzione della Pieve di Santa Giulia, altri
documenti del 1398 la dicono proprietà dei conti di Gombola, poi passò ai
Montecuccoli, quindi, nel 1534, dipendeva dai conti Mosti di Ferrara ed infine,
dai conti Sabbatini di Rancidoro.
Nel
1700 per l'ingiuria del tempo e per l'incuria degli uomini, la facciata della
chiesa crollò e soltanto nel 1780 fu riedificata come prima.
Nel
1858 fu innalzato un campanile in pietra lavorata che formò un corpo solo con
la chiesa. Due anni dopo e cioè nel 1860, due squillanti campane ne divennero l'ornamento e ad esse, nel 1889, se ne aggiunse una terza, perchè con le
altre squillasse serenamente ad accendere letizia nei cuori.
Ancor
oggi, chi salga su quel monte e vi scorga i ruderi di quello che fu il Santuario
di Santa Giulia e si senta rapito dall'infinito silenzio della terra e del
cielo, pare che stia ascoltando il suono di quelle campane che avrà dominato
le sparse case intorno e che, ripercuotendosi lontano, sulle alte vette, si sarà
poi lentamente adagiato nelle valli, confondendosi col rumore dei torrenti
Dragone, Dolo e Rossenna, mentre l'eco si diffondeva nel cielo.
Torrenti dalle acque spumeggianti,
nelle primavere in rapida corsa attraverso le valli, giù verso il fiume maggiore, la Secchia, ridenti sempre di candida letizia anche in
quella primavera in cui da santuario di Santa Giulia, rivoli di sangue
umano scendevano a bagnare la terra.
I
”ruderi"
del santuario, abbiamo detto, perché non soltanto uno dei primi colpi di
cannone che turbarono la pace laboriosa della zona, il 18 marzo 1944,
provenienti dalle artiglierie appostate sul monte dirimpetto (Montefiorino), ne
iniziò la distruzione, ma, diventato in seguito, deposito clandestino di armi e
di notevole quantità di munizioni, il 9 gennaio 1945, fu fatto saltare
dai soldati tedeschi e soltanto la statua della Santa, fra le macerie, fu
trovata intatta.
Se
si riflette che nulla rimase in piedi del santuario, né alcuna parte del
campanile (con tre campane, due delle quali, ridotte a mal partito, fanno ora
parte del gruppo campanario della chiesa di Monchio) e nemmeno
l'altare e se si rammenta che la statua della Santa è in terra cotta, appare un
miracolo il fatto che essa si sia trovata perfettamente intatta, senza la
minima scalfittura, sulle macerie della chiesetta, come se vi fosse stata
delicatamente sovrapposta.
Lassù...
dove ora soltanto i capitelli abbattuti fra le pietre rovesciate e le serpi
stanno sotto il sole.
Sui
fianchi del monte si adagiano piccoli casolari sperduti fra i boschi di castagno
e di quercia. Sono questi in parte, ancora, i casolari di un tempo lontano.
Dal
suo sorgere e fino al 1636, la Pieve di Santa Giulia fu l'unica chiesa
parrocchiale per quei pochi abitanti della
valle del Dragone, del Dolo e del Rossenna: giungevano alla loro chiesa dopo
lungo cammino, là si raccoglievano nei giorni di festa, sfidando le bufere
dell'inverno, dopo avere forse sognato, in quelle notti invernali, la vivace e
colorita statuina lassù, quasi all'ultimo scalino prima del cielo.
A
molta distanza da Santa Giulia, e quasi contemporaneamente, sorsero altre Pievi:
Toano, Rubbiano, Frassinoro e Polinago.
Finalmente,
verso il 1600, furono erette le nuove parrocchie di Saltino, Morano, Cassano,
San Martino Vallata, Costrignano e Susano.
A
causa della erezione di questa parrocchie la giurisdizione territoriale della
Pieve di Santa Giulia venne limitata e fu allora che per maggiore comodità dei
fedeli, la sede della parrocchia fu, praticamente trasferita dal monte di Santa
Giulia, alla chiesa di Santa Maria,
nel centro del paese, a circa 750 metri sul livello del mare. Rimase però il
titolo di Santa Giulia alla parrocchia, anche nella sua nuova sede e la
denominazione attribuitele ai tempi di Matilde: Plebs de montibus Sanctae
Juliae. Questo avvenne nell'anno 1636.
La
nuova chiesa parrocchiale di Santa Maria, fu eretta nel 1909; la prima pietra
venne posta infatti il 12 maggio di quell'anno, e l'iscrizione sulla lapide dice:
”Hic lapis novae ecclesiae loco veritis vetustate fatiscentis, aedificandae.
Die
XII may MCMIX”. Nel Natale
1911 poi, la vasta chiesa attuale composta di tre ampie navate costruita in
stile romanico lombardo, abbellita di pitture di
pregio, fu coperta, e gli altri lavori di ornamento si protrassero fino
al 1943.
Ma
un'architrave in pietra, che ora sta come gradino nel nuovo battistero e che reca
la scritta, consunta dal tempo: ”D.Laurentius Ursinus Sanctae Juliae Monchii
Archipresbiter ut Deiparae Virgini haec ianua fieret fecit anno MDLIX”: ci
dice che prima di questa, un'altra chiesa ivi sorgeva e questa fu appunto la chiesetta che, nel 1636, assunse il titolo di parrocchia di Santa Giulia e che,
per comodità dei fedeli, sostituì l'antico santuario.
Da
quei tempi lontani, fino al 1921, incredibile a dirsi, in quei casolari adagiati
e sparsi attorno al monte Santa Giulia, l'umile gente che vi abitava, era senza
strade, priva di ogni segno civile e di ogni umano conforto, imprigionata lassù
dal corso dei torrenti: gente povera e umile, che viveva magramente con il
lavoro dei campi, ignara, che oltre a quei monti, vi fossero le vie del mondo:
gente che nasceva, viveva e moriva nell'arida cerchia della propria terra.
Ma
le profonde trincee che ancora si riconoscono attorno ai resti del Santuario,
stanno a dimostrare, con triste eloquenza, che la zona di Santa Giulia fu anche
luogo di aspre contese.
Le
campane delle chiese intorno e poi anche quella del santuario, avranno a quei
tempi e chissà quante volte, chiamato a raccolta, invocato difesa, suonato
alla ”stremita", gridato al pericolo, durante le alterne vicende delle
lotte feudali per la loro posizione erano facilmente intese anche dai più
lontani paesi.
A
queste lotte, che erano il riflesso dell'odio di feudatari potenti e lontani, si
aggiungevano spesso, atroci e dolorosi fatti di sangue, originati da meschini
antagonismi di campanile e da gelosie di individui: gelosie alle quali non era
estranea la donna.
Gli
anni e i secoli ed ancora gli anni, trascorrevano lentamente su quelle terre,
nelle quali pareva che alla aridità del luogo, corrispondesse la pigra
rassegnazione dei poveri abitatori.
LA
PRIMA STRADA
Così
queste genti vissero per secoli.
Finalmente
un lunedì di Pentecoste, radiosa giornata di maggio dell'anno 1921, un gruppo
di animosi, fra cui il parroco di Monchio, riunitosi proprio sul colle di Santa
Giulia, il cui santuario era ancora in piedi, suonava la diana della rinascita,
aspirava ad un vivere civile, reclamava una strada, una via di comunicazione col
resto del mondo.
E
una strada, per volere degli Onorevoli Adolfo Ferrari, deputato, e di S. E.
Giuseppe Micheli, ministro dei Lavori Pubblici, fu finanziata il 18 febbraio
1922.
E
la neve era ancora alta sui campi.
Questa
strada che si allaccia alla Statale n. 40 di Savoniero, in dieci anni, e non
senza contese, raggiunse il paese di Monchio fino alla chiesa parrocchiale. Nel
1928 si iniziarono i lavori per la costruzione del ponte sulla Secchia a Casa
Poggioli, con due diramazioni di strade : una diretta alla chiesa di Saltino,
l'altra, costeggiante il torrente Rossenna. Così, finito il ponte in due anni,
si aprì un varco per l'isolato montano di Santa Giulia, dall'altra parte (Savoniero) e dall'altra (Casa Poggioli) verso il mondo.
Si
univa la voce di queste case isolate a quella di altre case non più sole, e da
altri paesi giungevano a queste i segni più significativi e più utili al
progresso umano: la illuminazione, una cassetta per le lettere, anche se non
ancora un ufficio di posta, i più indispensabili soccorsi sanitari, la scuola e
la radio.
Lasciamo
ora alla riflessione del lettore il giudicare, alla luce delle tragiche vicende
che narreremo, se l'avere aperto alle strade del vivere civile l'esistenza di
questi umili e ignari abitatori, se l'averli messi a contatto con la civiltà e
con tutte le sue conseguenze, sia stato per loro un bene od un male. Bene e male
sono nel cuore dell'uomo e dall'uomo dipende l'uso e dei beni civili, poiché
anche prima, anche quando la strada non era costruita, questi luoghi, questi
monti, queste isolate abitazioni furono tuttavia, come abbiamo accennato, sede
di aspri contrasti e di lotte acerbe.
Da
secoli però la vita vi si svolgeva laboriosa e tranquilla: la pace e la purezza
del luogo, si rifletteva nell'onestà, nell'innocenza dei suoi abitanti
montanari.
IL 10 GIUGNO 1940, IL 25 LUGLIO ED IL GIORNO 8 SETTEMBRE 1943
Ed
i segni della civiltà stavano accrescendo con le nuove comunicazioni il
benessere del popolo, quando la radio...
La
radio, quella del parroco (forse l'unica del paese), porta la notizia della
guerra dichiarata dall'Italia all'Inghilterra ed alla Francia e poi ad una
catena di altri stati.
10
giugno 1940.
Il
25 luglio 1943 si ha la notizia del rovesciamento del governo fascista che da
ventidue anni dominava la nazione e popolo italiano e dell'incarico di formare
un nuovo governo che il re, Vittorio Emanuele III di Casa Savoia, ha affidato al generale Pietro Badoglio.
In
conseguenza di ciò, il Re ed il
Generale Badoglio passano nel campo Alleato (inglese e americano), nell'Italia
meridionale e, dalla parte opposta, cioè nell'Italia centrale, Roma compresa, e
settentrionale, liberato Benito Mussolini, il già destituito capo del governo
fascista, si forma sotto il suo comando, una repubblica fiancheggiata e
fiancheggiante le truppe tedesche, le quali nei due mesi, erano discese
minacciose in Italia in numero enorme.
Così
anche per gli abitanti delle località di cui narriamo la cronaca, la gioia
dell'armistizio fu subito spenta e convertita in beffa atroce per le angherie
dei fascisti repubblichini, per i soprusi tedeschi, per lo sterminio dei
bombardamenti anglo-americani.
Ed
ecco come la guerra, dai suoi fronti lontani, si affacciò improvvisamente e
realmente alla soglia di queste povere case.
Arriva
l'Accademia Militare di Modena.
Racconta
il parroco di Monchio:
La
”Maestà
dei Cavaini" é uno di quei cari e romantici piccoli ”Piloni" in
pietra racchiudenti una immagine della Madonna e sormontati da una croce di
sasso che servono, nella tradizione, da punto di riferimento per i viaggi in
montagna. Essa segna il confine, diciamo, tra opposti versanti: da un lato vi
si domina con lo sguardo Montefiorino, Monchio, Santa Giulia stessa con i fiumi
scorrenti laggiù in fondo lontano; dall'altra si apre la vista panoramica delle
strade di Polinago e Lama Mocogno alle quali strade si giunge passando per i
ridenti gruppi di case delle Braglie, Montermine e Pianorso. Dalla ”Maestà dei
Cavaini” si gode l'aria pura dell'Appennino Emiliano profumata di abeti e di
folti castagni.
Quale
stridente contrasto con le voci arroganti dei soldati invasori, con il fremito
dei cavalli e la pesantezza del ferro mortale!
Qui
dunque avvenne il primo segno di disordine militare nell'Appennino Modenese, collo smembramento delle file della Accademia: disordine dal quale si originarono i
primi atti del furto, di rapina e le prime minacce di morte.
Armi
e cavalli sono abbandonati lassù mentre nei pressi della Parrocchia di Monchio,
restano ben venti autocarri, un'autobotte ed una autoambulanza, contenenti ogni
ben di Dio per un valore di oltre 500 milioni.
Il
mattino del sabato 11 settembre, giungono in paese sei soldati tedeschi su una
camionetta: fanno razzia di quanto loro più piace e si trascinano dietro parte
degli automezzi col il carico più prezioso.
Il
mattino seguente, domenica, la popolazione civile compie il completo
svaligiamento di quanto era rimasto, del materiale militare, dopo la razzia
della ingordigia tedesca.
La
guerra è sempre causa delle più bestiali azioni umane e non desta meraviglia
questo fatto: essa rimuove sempre quel triste fango che fa di noi una misera
cosa e vorrebbe tirarci in basso.
Si
assiste ad una vera spoliazione; ad un frenetico assalto alle cose. Uomini,
donne di ogni età, bambini vanno a gara nel trasportare sacchi, nello sventrare
casse: sono coperte, lenzuola, scarpe, stivali, zucchero, olio, bombe, altre
munizioni che prendono rapidamente il volo.
ORDINE
DI RECUPERO
Il
giorno dopo, 13 settembre 1943, giungono di nuovo le truppe tedesche,
accompagnate dai militi fascisti, ordinano l'immediata consegna del materiale
dell'Accademia sotto pena di morte.
Molti
si lasciano intimidire e consegnano gran parte della roba asportata e ne vengono
caricati due grossi autocarri.
I
PRIMI RIBELLI
La
montagna sin dall'epoca delle guerre del Risorgimento fu per l'Italia la grande
madre, il grande rifugio di quanti, a causa delle vicissitudini politiche e
guerriere, si trovarono senza casa o dovevano vivere braccati e perseguitati
come bestie nei boschi.
Anche
nel 1943 ai primi di ottobre comparvero nella zona di Santa Giulia i
primi ”ribelli": i primi giovani fuggiti dai reggimenti sbandati senza
guida, senza una speranza certa ed una meta precisa. Frotte di giovani, talvolta
laceri e sporchi sempre affamati certamente con lo sgomento nel cuore,
spaventati, incerti vengono su dalle strade delle valli, nella speranza di una
salvezza e anche forse già mandati da coloro che nelle confusioni, che
accompagnano i grandi rivolgimenti, mantengono la mente lucida e fredda per un
perfido scopo.
Sono
infatti, alcuni di questi giovani, di ”marca rossa" e non si trattengono
dal prendere motivo degli avvenimenti per diffondere il verbo comunista.
La
dottrina è facile all'orecchio dei semplici e numerosi sono ben presto i
proseliti anche a Monchio.
IL
PRIMO RASTRELLAMENTO
Le
autorità militari tedesche e quelle della repubblica fascista,
sommariamente costituitesi al Nord dell'Italia, cominciarono a distribuire
manifestini incitanti tutti i soldati dispersi a presentarsi ai vari comandi, a
rientrare nelle caserme, a ricomporre le file del nuovo esercito e si additava
ormai al disprezzo del popolo la ”fuga del re" e del Generale Badoglio,
inneggiando alle forze ed alla dottrina di conquista del nazifascismo.
Ma
ben poche furono le adesioni, i ritorni all'ovile delle pecore smarrite ed i
gruppi di ”ribelli" che salivano sulle montagne diventavano sempre più
folti e numerosi.
Costoro,
ben presto, guidati da capi ed aiutati dai ”lanci" di materiale bellico da
parte degli aerei americani, iniziarono varie azioni guerriere di disturbo e di
sabotaggio di diverse località, così da provocare l'inizio
di ”rastrellamenti" che si succedettero in diverse zone e con saltuaria
frequenza.
Il
27 dicembre 1943 le truppe repubblichine compirono nella valletta ”Le
Macchie" il primo rastrellamento della zona.
Quel
giorno il Podestà di Montefiorino,
il maresciallo del carabinieri ed il segretario, si presentarono al parroco di
Monchio chiedendogli... dove fossero i ”ribelli", quasi che nella
cura delle anime, che è il dovere del parroco, rientrasse il compito di
informazione e di delazione politica.
A tanto giungevano gli animi esasperati: fatto questo, certamente, non nuovo
nella storia italiana.
In
casa di un contadino, Domenico Pugnaghi, stavano per iniziare la cena alcuni
giovani ”ribelli" che con la forza avevano preteso da lui quelle vivande,
quando, sentendo bussare alla porta, erano fuggiti affamati, senza neppur
toccar cibo.
I
tre messeri che abbiamo detto, minacciarono allora con la rivoltella un uomo là
in letto ed ammalato ed una vecchia donna perché corressero ad arrestarli.
Entrati
in un'altra abitazione, avendo visto sul tavolo una minestra simile a quella
abbandonata nella casa del Pugnaghi, pretesero che anche lì vi fossero
stati ”ribelli" ed uscirono in minacce e bestemmie. Il risultato fu in
sostanza negativo e le poche
persone civili arrestate furono
tosto lasciate in libertà.
IL
SECONDO RASTRELLAMENTO
L'azione
di rappresaglia non aveva
tregua, causa le continue azioni di sabotaggio e di disturbo e le numerose
defezioni dall'esercito, anche da quello repubblichino appena formatosi. Gli
ordini perentori e minacciosi dei capi, che in gran parte avevano riassunto i
loro comandi sotto la nuova formazione con bandiera nazi-fascista, l'azione di
Mussolini, liberato fulmineamente dal Campo Imperatore del Gran Sasso dove
l'aveva rinchiuso il generale Badoglio, la necessità di affiancare le forze
tedesche: tutti questi e altri furono i motivi più evidenti, perché i
rastrellamenti dei ”ribelli" si intensificassero e si svolgessero con
forze maggiori e su larga scala.
Il
giorno 7 febbraio 1944, nella zona di Santa Giulia, ebbe luogo il
secondo ”rastrellamento" compiuto dalle milizie repubblichine; ma, anche
questa volta, i ”ribelli" erano già riparati su altri monti, e l'esito fu
totalmente negativo.
IL TERZO RASTRELLAMENTO
Nonostante
l'esito negativo dei due precedenti ”rastrellamenti"; la zona di Santa
Giulia, per la sua posizione dominante e per le strade che si possono
controllare da essa, era continuamente presente ai comandi delle forze tedesche
e queste, con grande apparato di equipaggiamento, di mitragliatrici e di mortai,
giunsero inattese verso le ore 11 del mattino del 16 marzo 1944, giovedì, in
quel di Monchio, con lo scopo di effettuare un terzo e più esteso
rastrellamento di ”ribelli".
C'era
ancora la neve, in marzo, sulla strada e le truppe giunte in località ”La
Croce del Cappello", non potendo proseguire oltre con gli automezzi,
appostarono le mitraglie ed i mortai e subito aprirono il fuoco senza la minima
provocazione sulla zona di Santa Giulia.
Le
bombe che, inattese, cadevano sulle povere case del luogo, incendiarono, per
primo, il fienile di Gino Silvestri e colpirono la casa di abitazione. La
famigliola spaventata, sfollò il giorno dopo in un'altra casa, ove il
capofamiglia Agostino, trovò la morte.
Si
trattava evidentemente di una azione preparatoria, avente lo scopo di intimidire
e snidare i ”ribelli" e di costringerli alla resa o alla lotta.
Ed
i ”ribelli", questa volta, non fuggono, ma accettano la battaglia
disponendosi, con una vecchia e sola mitragliatrice (che presto si inceppò),
dietro un cocuzzolo vicino al Santuario, ed attendono al varco i superbi tedeschi che avanzano, spavaldamente, chiacchierando ad alta voce per la strada
che porta a Monchio: ma il loro superbo atteggiamento fu ben presto interrotto,
poiché, giunti in località ”La Corbelletta", una raffica di mitraglia
sparata dai ”ribelli" nascosti, li colpì in pieno.
Sei
soldati ed un ufficiale caddero fulminati, ma non si ebbe alcuna immediata
rappresaglia.
Cessato
il fuoco i tedeschi, raccolti i loro morti, si ritirarono, facendo prigionieri
otto uomini del luogo che furono in seguito inviati al campo di concentramento
di Fossoli di Carpi (MO) e si salvarono così dalla prossima strage.
Intanto
ignote mani facevano squillare le campane di Santa Giulia.
I
PREPARATIVI DELLA VENDETTA
Ed
una strage si preparava davvero, perché un'aspra vendetta covava nel cuore dei tedeschi per i quali ogni fatto era pretesto a saccheggi e stragi.
Per
tutta la giornata di venerdì 17 marzo si udì un continuo rombare di motori e
un minaccioso sferragliare di artigliare, proveniente dalla strada delle Radici
che da Sassuolo conduce a
Montefiorino.
"Che
cosa succederà?" si chiedeva la gente impaurita.
E
qualcuno proponeva: ”Non sarebbe bene fuggire?" “Ma dove? Siamo
accerchiati "dicevano altri” ed è ormai tardi".
Il
pensiero della casa, della famiglia, dei figli, del prodotto del lavoro
tratteneva gli uomini dalla fuga. Fuggire avrebbe significato abbandonare
deliberatamente alla rapina dei tedeschi ogni sostanza ed ogni bene. Meglio
dunque provvedersi dei regolari documenti per evitare una deportazione in
Germania ed intanto, attendere.
LA
STRAGE
Sono
le ore sei del mattino 18 marzo 1944, un rombo lacerante poi uno schianto. E' il
primo colpo di cannone al quale seguono molti altri con una celerità
spaventosa.
I
pezzi di artiglieria sono piazzati a Montefiorino e battono palmo a palmo tutto
il versante di Susano, Costrignano e Monchio.
E'
una tempesta di fuoco lanciata forse a caso, paurosa e mortifera.
Tempesta
di cannonate che rende tutti come smemorati e senza volere.
Alle
cannonate seguono le grosse mitragliatrici che frugano ogni luogo, penetrano in
ogni anfratto, snidano ogni vivente da qualsiasi riparo.
Intanto,
così preceduti e protetti dalle artiglierie avanzano i nuovi barbari simili
agli antichi germanici senza Dio; e si apprestano, scortati dalle autoblinde, al
grande assalto dei ”ribelli", i quali, non erano ormai più nella zona:
restavano gli umili abitanti, nelle loro povere case, a subire la rappresaglia
orribile e barbara.
Un
reparto di tedeschi si ferma a Susano; gli altri proseguono per Costrignano,
Lama di Monchio e Monchio.
A
questo punto un primo consiglio di fuggire, proposto dal parroco, dai più
avveduti ed anziani del paese venne scartato. Non erano innocenti questi umili
montanari? Non avevano ”le carte in regola", forse? E dunque di che cosa
avevano da temere?
Già
altra volta, (quante volte in Italia?) già un secolo prima, sotto la
dominazione austriaca, i figli innocenti erano caduti sotto la barbarie, fidando
nella lealtà del nemico. Ma quei lontani tempi riscattati con le lotte del
Risorgimento, quei lontani episodi di fughe, di rastrellamenti, di orrendi
omicidi avvenuti allora, non erano più nella memoria di questi buoni, certi
della loro innocenza, sicuri di trovare prima di ogni atto di guerra,
l'espressione della giustizia umana.
Fu
una fatale illusione.
PRIMO
SANGUE A LAMA DI MONCHIO
Gli
atroci episodi con la evidenza della più cruda realtà non consentono certo ad
un cronista di inquadrarli in una cornice di artigiano più o meno inanellata e
tronfia di retorica. Varrà la nuda e scarna narrazione dei fatti, varrà
l'accenno sobrio e schietto ad ogni singolo episodio a rendere più di ogni
ornata descrizione, la tragedia che si svolge rapida in ogni cuore di uomo e di
donna, di vecchio, di fanciullo e si conclude con la morte di tutti.
Gli
episodi prendono forma nel nostro spirito e superato la semplice cronica. Il
linguaggio solenne della morte non sopporta più le parole quando è messo di
fronte alla forza inarrestabile di un volere supremo: certo di una
imperscrutabile sapienza.
Una
prima pattuglia di tedeschi in motocicletta, forse i meno crudeli, percorrendo
velocemente la strada presso Lama di Monchio, si lascia sfuggire qualche frase
sulla prossima imminente strage ad opera dei reparti speciali S.S. tedeschi.
Questo
è l'ultimo bagliore umano prima della tempesta: ma sono pochi coloro che
comprendono l'inatteso linguaggio degli stranieri; e soltanto questi pochi
fuggirono, riuscendo a mettersi in salvo nelle gole del ”Fossone".
I
più invece si chiudono in casa, scendono nelle cantine a recitare il rosario.
Alberto
dei Caselli di anni 51 è sorpreso nella sua cucina con la moglie ed i
figlioletti; è obbligato ad uscire ed è, lì sulla soglia della casa, sotto lo
sguardo esterrefatto dei familiari, barbaramente ucciso.
Questo
è il primo sangue della zona di Santa Giulia. Primo sangue di povera gente
innocente, ignara, forse, delle atroci passioni che, nel vasto mondo, hanno
creato l'odio fra gli uomini e li hanno condotti ad una guerra di sterminio.
Due
figli di Carani, detto Pinino, Ernesto e Geminiano, si sono rifugiati nel
fienile di Luigi Ferrari e si son nascosti dietro la paglia. Ad essi si è
aggiunto Viterbo, figlio di Ricchi Anania e Mauro Rioli di Franceschino. Sono
giovani non ancora ventenni e temono di essere deportati in Germania, ma il loro
è, purtroppo, un rifugio traditore, perché, sentendosi investiti dal fumo e
dalle fiamme appiccate dai tedeschi ai foraggi, sono costretti ad
uscire all'aperto e vengono immediatamente uccisi.
Celso
dei Mesini di anni 56 ed il ”magnanino" Livio Bucciarelli di anni 25
vengono caricati, con atroce perfidia, di valigie, tradotti insieme a molti
altri di Susano e Costrignano, al cimitero vecchio e là barbaramente trucidati.
Scampano
all'eccidio di Lama di Monchio il vecchio Secondo dalle sei dita che si vede
passare, barcollando, tra soldati tedeschi, seguito a pochi passi da Onelio
Ferrari che, novello Enea, porta in salvo sulle spalle, il padre zoppo.
Anche
gli uomini rastrellati due giorni prima della strage, dopo un paio di settimane
di prigionia in un campo di concentramento di Fossoli (Carpi) se ne possono
tornare alle loro famiglie.
Il
più fortunato è Giovannino, il falegname, il quale trovavasi con la famiglia,
in casa quando, entrando un soldato della pattuglia tedesca, poté dirgli di
essere stato a Stettino in Germania a lavorare. Il soldato, allora, si fa dare un
pezzo di carta, vi scrive ”famiglia che ha lavorato in Germania rispettarla."
Lo inchioda alla porta, all'esterno e se ne va raccomandando di restare chiusi
in casa.
E
quella casa fu infatti rispettata.
Il
bilancio della strage di Lama di Monchio fu il seguente:
PER
I SENTIERI DI VEDRIANO
Mentre
il grosso delle truppe prosegue il suo cammino sula strada maestra, una piccola
pattuglia di belve umane, scorta fra i castagni una piccola casetta quasi
nascosta in una valletta, vi si dirige e vi prende Giuseppe dei Fiorentini di
anni 39.
Un
caro e bravo lavoratore: un galantuomo.
Nel
momento di uscire di casa, Giuseppe dà uno sguardo tenero e lungo alla vecchia
madre, alla moglie paralitica, ai quattro figlioletti.
Poveretto
non può nemmeno parlare, ma quel
lungo e tenero sguardo dice chiaramente con inesprimibile angoscia: ”Non ci
vedremo più".
Un'altra
pattuglia, intanto, raggiunge le case di Vedriano in parte già sventrate dalle
artiglierie, in parte distrutte dagli incendi provocati dagli spezzoni ancora
fumanti.
Ancora
proseguendo il cammino una pattuglia delle belve incontra Alessandro de' Mesini,
di anni 40, ed anche lui è associato agli altri e condotto in triste corteo di
sventurati, verso il campo della grande strage.
E altre pattuglie intanto...
SULLA
STRADA DI MONCHIO
Appena
passato il casolare di Lama di Monchio, la banda dei nazifascista penetra nel
mulino di Umberto Casoni, ma gli uomini ne sono già fuggiti ed è rimasta
soltanto una povera vecchia: la madre del Casoni.
Le
belve rubano ogni cosa appiccano il fuoco alla casa e distruggono, con la
dinamite, l'impianto del mulino.
Quindi
la feroce masnada prosegue il cammino.
Nel
podere ”Le Salde" del parroco di Monchio, incendiano la casa colonica, le
due stalle ed un portico.
I
coloni Pancani si sono rifugiati nella stalla fra i suini e sono salvi per il
momento; ma quando tutto è in preda a fuoco violento ed i tedeschi, che l'hanno
acceso, si sono diretti altrove, il colono Pancani Marco, nella speranza di
salvare il bestiame e le poche masserizie, esce dal nascondiglio e,
disgraziatamente, sulla strada carrozzabile passano altre truppe tedesche che lo
scorgono, scendono fino alla casa in fiamme lo costringono a recarsi sulla
strada, seguito dal figlio Tonino di anni 13 che vuole ad ogni costo stare col
babbo, e barbaramente viene trucidato accanto al figlioletto, anch'egli colpito
a morte.
Ma
ancora non basta.
A
pochi passi di distanza viene pure
ucciso a colpi di mitra, Sisto Facchini, un vecchio di 82 anni, artritico, che
camminava a stento si trascinava appoggiandosi al bastone.
E
ancora: alla distanza di circa 500 metri dalla strada in località Bellaria,
sempre presso la strada di Monchio, trovati in una abitazione della Volta di San
Martino, furono trucidati i seguenti uomini:
Sotto
il fuoco ininterrotto dell'artiglieria appostata a Montefiorino ed a Savoniero e
che batte il versante di Santa
Giulia e la Borgata di Cà' de' Ponzi, protetto dal tiro allungato delle
mitragliatrici, il grosso dei soldati tedeschi giunge al vecchio cimitero di
Monchio.
Sono circa mille uomini equipaggiati per una impresa in grande stile, hanno autoblinde, mitragliatrici, mitragliatori, carri armati, autocarri, ecc. ecc. ecc.
Appostano subito una mitraglia a Ca' de' Foleri e di là dominano tutta la zona
per impedire ogni tentativo di fuga.
Sono
le sette del mattino: comincia il saccheggio e l'orribile strage.
Entrano
nelle case, spezzano stoviglie e mandando in frantumi i vetri con i loro grossi
fucili, fanno uscire le donne e i bambini, fanno una scorreria nelle camere,
rubando qua e là tutto ciò che a loro aggrada, caricando gli uomini che
avevano nel frattempo tenuti fermi sotto la minaccia delle armi e quindi li
avviano alla piazzetta, al prato, sulla strada in prossimità del cimitero
vecchio.
E
qui sarà il campo della morte dove a gruppi di trenta, tutti gli uomini sono
uccisi ed i loro cadaveri abbandonati, dopo un nuovo colpo alla nuca.
Intanto
si scorgono le fiamme ed il fumo uscire dalle case, dalle stalle, dai fienili
incendiati.
Dante
Venturelli di anni 31 del fu Eugenio è scoperto in cucina con un figlioletto di
sei mesi in braccio; viene condotto a viva forza fuori di casa, trascinato fino
al cimitero e là viene passato alle armi, primo fra gli abitanti di Monchio,
sotto gli occhi della vecchia madre.
La
moglie del Venturelli segue disperatamente il marito che è trascinato alla
morte e disperatamente si avvinghia al cadavere quando esso non è più. Poi
fugge in cerca del figlio maggiore Eugenio, ma la sua corsa è arrestata da una
rabbiosa raffica che la fa cadere a terra fulminata.
Non
credo che si possa immaginare un episodio più atroce di questo in cui amore e
morte; disperato bene ed aspro odio stanno di fronte.
Seguono
la triste fine di Gioacchino Venturelli di anni 54 ed il figlio Florido
sedicenne; quindi molti altri.
La
carneficina prosegue fino alle cinque del pomeriggio. Soltanto dopo quell'ora
sarà possibile fare il macabro censimento di tanti uomini innocenti così
ingiustamente e barbaramente uccisi dai Tedeschi e dai repubblichini che
cercavano ansiosi anche il pastore: il prete.
LA
TRISTE GIORNATA DEL PARROCO
E'
il Parroco di Monchio, Don Luigi Braglia, che racconta:
"Quando
il giorno 17, venerdì, udii il continuo rombare dei motori, presagi che i
barbari tedeschi qualche grave vendetta dei loro morti, avrebbero certamente
fatta, però ero ben lontano dal prevedere una simile strage.
Supponevo
un rastrellamento di vaste proporzioni, con deportazione di molti uomini e perciò
non pensai di mettere in salvo nulla e neppure di fuggire.
E
quando il mattino seguente, sabato 18 marzo, vidi le luci sinistre delle prime
case incendiate a Susano; quando le artiglierie e le mitragliatrici rovesciarono
su tutta la zona una vera valanga di ferro, era troppo tardi per porsi in salvo;
ed inebetito dallo spavento mi abbandonai nelle mano di Dio.
Radunai
in chiesa mia sorella Caterina, la domestica Caterina Pugnaghi, il colono
Claudio Pancani con i figli Mario, Ernesto e Giuseppina. Mi comunicai,
distribuii il corpo del Signore a tutti i presenti e ci lasciammo senza
proferire parola per il grande dolore e per i tristi presentimenti di quanto
stava per accadere.
Trovai
un nascondiglio nelle volte della chiesa, nella navata bassa, sopra il
Battistero e mi ci rifugiai con Mario ed Ernesto Pancani, mentre Claudio Pancani
di anni 58, ritornava alla sua casa nella speranza, che fu poi una illusione, di
una certa sicurezza, perché aveva le carte in regola.
Anche
le donne tornarono in Canonica nella speranza di non essere molestate.
Alle
otto circa del mattino i grossi proiettili di artiglieria cominciarono a
sorvolare la Chiesa, andando a colpire la borgata Ca' de' Ponzi.
Fui
preso allora da sbigottimento e risolsi di tentare la fuga attraverso i campi
con i due ragazzi che erano meco, ma appena fui ai piedi della prima scaletta
incontrai Giuseppe Gugliemini di anni 37 il quale mi avvertì che era troppo
tardi per fuggire, perché i tedeschi erano già arrivati in paese ed avevano già
appostato le armi minacciose.
Con
il nuovo compagno di sventura tornai al mio nascondiglio: il cannone intanto,
seguitava a tuonare e le mitraglie cantavano la più lugubre delle canzoni.
Da
lassù me ne stetti vigile ad ogni rumore come colui che ad ogni momento attende
gli scannatori umani.
Di
lassù io sentivo crepitare le fiamme del rogo delle case incendiate ed il
pianto disperato di alcune donne che, correndo urlavano impazzite: ”Ci uccidono
tutti; ci uccidono tutti!"
Verso
le tre del pomeriggio tutte le case della borgata del Castello e della Chiesa
erano scoperchiate, soltanto quella di Giuseppe Guglielmini aveva ancora
il tetto, dal quale tuttavia già il fuoco gettava fuori le lingue rosse di
fiamma.
Il
Guglielmini per il timore che là dentro la sua casa in fiamme perissero i sei
figli immediatamente, qualunque io cercassi di trattenerlo, uscì alla loro
ricerca.
Purtroppo
appena ai piedi della scala fu perso dai tedeschi condotto sulla strada e là,
di fronte alla casa di Ildegona Silvestri, sotto gli occhi della moglie e dei
figli, barbaramente ucciso.
Ed
Ernesto Pancani che aveva voluto seguirlo ad ogni costo, era preso e quindi
ucciso nella Piazzetta del Cimitero vecchio, sotto gli occhi di mia sorella.
Temendo
prossima la mia fine, pensai di tentare una fuga folle nei campi e a tale scopo
scesi in chiesa in attesa del momento più favorevole per fuggire.
Per
grazia del Signore entrò in quel momento mia sorella Caterina, la quale mi
avvertì che i tedeschi erano ormai in casa, che avevano già ucciso Ernesto e
che perciò era necessario che io risalissi subito al nascondiglio.
Feci
appena in tempo a risalire sulle volte che incominciò il vandalismo in chiesa.
IL RACCONTO DELLO SCAMPATO
Ecco
il racconto di Nemesio Debbia, il
miracolosamente scampato.
"Terrorizzato
dai primi colpi di artiglieria e dalla triste sinfonia dele mitragliatrici, ho
radunato intorno a me tutta la mia famigliola e ci siamo messi a recitare il
Santo Rosario: tra gli ultimi là convenuti a viva forza ricordo benissimo i
fratelli Luigi ed Aurelio Guglielmini e Claudio Pancani.
Dopo
circa un'ora di attesa ci incolonnarono per due e ci spinsero nel prato
sottostante.
Eravamo
circa trenta uomini e su di noi aprirono un fuoco incrociato di mitragliatrici.
Mi
gettai a terra alla prima scarica: ero illeso!
Intorno
a me sentivo preghiere, rantoli, lamenti strazianti.
Dopo
circa dieci minuti passarono alcuni soldatacci per l'ultimo colpo alla nuca ai
singoli caduti. Per una grazia speciale di Dio io fui risparmiato.
Rimasi là immobile in un silenzio di
morte. Così forse per un'ora.
Dopo
circa mezz'ora sentiamo bussare violentemente alla porta. Sono i tedeschi. Essi
fanno uscire tutti gli uomini della famiglia: i due miei figli Valerio e Franco,
il cugino Enrico e me. Mentre un gruppo di Tedeschi fruga la casa in ogni luogo,
un'altra pattuglia ci conduce a Ca' di Ghedino e là sono uniti a noi. Augusto
Barozzi con i figli Adelmo e Mario; Ernesto Compagni, Giuseppe Abbati con i
figli Milziade e Mario. Ci fanno entrare nella stalla di Ernesto Compagni il cui
sovrastante fienile già divampava fiammeggiando, forse col proposito di
chiuderci là dentro, ma poco dopo, sia che avessero mutato parere, sia in
seguito a nuovo ordine dei loro capi ci fecero uscire e assieme con i nuovi
sopraggiunti ci condussero sulla strada carrozzabile e ivi ci tennero fermi in
attesa di altri morituri, spinti da infami segugi.
Giunge
quindi un secondo drappello destinato alla morte e udii una voce alta e rabbiosa
che urlava: "Quelli lì son tutti morti, fra poco voi farete loro
compagnia."
Altre
raffiche di mitraglia, alcune grida, lamenti, rantoli e poi il secondo giro per
il colpo di grazia alla nuca.
Quindi
di nuovo il silenzio della morte.
Di
lì a poco un terzo gruppo di innocenti fu allo stesso modo passato per le armi,
seguì il giro per il colpo finale alla nuca e, questa volta, anch' io sentii la
fiammata della rivoltella e la terra smossa mi colpì il viso: ma ero ancora
miracolosamente illeso.
Trascorsero
così istanti che mi parvero eterni e forse ore che mi parvero istanti: nel
cuore un tumulto di angoscia mortale e, tutto intorno, un tragico silenzio.
Dopo
molto tempo che mi parve un'eternità, sentii il rombo di macchine: ”Forse se
ne vanno", pensai. Ma chi si sarebbe fidato a muoversi per guardare? Così
continuai a fare il morto. Era ormai sera: un tragico tramonto scendeva sulla
morte, mentre udivo dalle case, ancora in fiamme, le urla di terrore ed i
singhiozzi delle donne.
Vicino
a me, ad un tratto, sento una voce di donna che piange e si lamenta vagando
fra i morti. Si avvicina a me; mi riconosce, e credendomi morto dice: ”Valerio,
Franco, Enrico, Nemesio, tutti morti!" e riprende il pianto. Riconosco la
voce la cugina Maria e m'arrischio a chiederle ”Sono partiti i tedeschi?".
“Sono andati tutti" mi risponde.
Allora
mi metto carponi, rotolo sino alla strada e poi fuggo fino a Castagnola ove
trovo Giuseppe Magnani gravemente ferito; Amilcare Magnani ed Agostino
Silvestri, uccisi sulla soglia delle proprie case.
E
sulla soglia delle proprie case poco lontano giacevano sfracellati dai colpi di
mitra Michele Pistoni di anni 34 ed il figlio Dino di anni 14; ed il cognato
Ermeligio Albicini.
Quadro
straziante di una orrida strage."
Qui
finisce il racconto di Nemesio Debbia, lo scampato.
A MONTALAGO
Continuando
nella loro scorreria, una piccola pattuglia di Tedeschi, staccatasi dal grosso
della truppa si dirige al Querciadello e, dopo aver incendiato la casa di
abitazione e la stalla Balbina Castellari, prosegue per Montalago.
Qui
per un ultimo barlume di umanità
nella immane tragedia, un soldato di cuore buono entra nella casa di Giuseppe
Marchi e, dopo avergli raccomandato di nascondersi nel soffitto, si unisce ai
soldatacci che, dopo avere appiccato il fuoco a una stalla, stanno trascinando
seco i fratelli Ivo ed Alfredo Marchi.
Alfredo
in un momento di disattenzione dei suoi guardiani, riesce a fuggire: lo
scorgono, ma non lo inseguono, né gli sparano. Ivo invece è condotto fino alla
Maestà di Montalago e là freddato crudelmente mentre piangeva implorando in
ginocchio che gli lasciassero la vita.
A
CA' DE' PONZI
Mentre
si elevano al cielo le fiamme che divorano le case ed i fienili e continua la
strage presso il Cimitero vecchio una pattuglia di tedeschi si dirige a Ca' de'
Ponzi, borgata di 18 famiglie.
Ivi
i Tedeschi fanno razzia di quanto loro aggrada, costringendo gli uomini a
portare biancheria, salumi, uova, al luogo di raccolta. Quindi giungono le
camionette dalle quali discendono i soldati, che compiono l'incendio e la strage
d'uso.
Sono
qui trucidati con arma da fuoco:
Antonio
Rioli di anni 70, Pellegrino Rioli di anni 73, i fratelli Eleuterio di anni 40
ed Attilio Giberti di anni 33 i quali, essendo caduti sulla porta di casa,
rimasero carbonizzati dalle fiamme che da quella uscivano; Ambrogio Braglia di
anni 50 che restò sotto le macerie della sua casa crollata e poi rimase
incenerito dall'incendio che ne seguì dopo il bombardamento; la di lui moglie
Adele Cornetti di anni 50 che ferita gravemente per il crollo della propria casa
venne trasportata da Luigi Cornetti nel proprio letto ove restò incenerita. Ed
intanto il medesimo Luigi Cornetti di anni 40, per questa opera di carità,
ritardò la fuga e fu ucciso sulla soglia dell'uscio.
Amilcare
Giberti fece in tempo a portare in salvo la moglie malata.
Ed
ecco il triste bilancio della strage tedesca a Ca' de' Ponzi:
I
sette morti sono:
A
SAN VITALE
Mentre
si svolgevano gli atti di vandalismo e di barbarie già descritti a vergogna del
genere umano, altre pattuglie si dirigevano alla borgata di San Vitale.
Qui
gli uomini erano tutti in casa con le loro famiglie e quindi il rastrellamento
fu facile, copioso e sapido.
A
dir la verità gli uomini di San vitale erano tutti fuggiti, ma un ragazzotto,
all'approssimarsi dei tedeschi, era corso al loro rifugio urlando che se non
fossero ritornati, i barbari avrebbero ucciso tutte le donne. La notizia non era
vera, ma in quei momenti assai verosimile: tornano allora alle loro case gli
uomini e sono tutti uccisi.
Ennio
Tincani fu Ignazio di anni 36 e Giovanni Caminati fu Giuseppe di anni 56 furono
uccisi sul luogo mentre gli altri vennero tradotti al cimitero e là colpiti a
morte.
Essi
furono:
Teobaldo
Ferrari risiedeva alla Campana, ove faceva il maestro privato e, nell'ansia di
avere notizie della madre si recava verso casa, ma durante il cammino incontrò
il lugubre corteo dei morituri, fu intruppato con essi, tutti condotti al
Cimitero vecchio di Monchio e là, come già si disse, uccisi da quelle belve
umane che superavano in ferocia ogni animale feroce.
Dieci
furono dunque i morti di San Vitale nel Cimitero vecchio; una casa e tre stalle
incendiate.
L'EPILOGO
DELLA TRAGICA GIORNATA
Riprendiamo
il racconto del Parroco di Monchio:
"Verso
le ore cinque del 18 marzo al pomeriggio, la fucileria cominciò a languire; si
udivano gli ultimi spari qua e là mentre le macchine si mettevano in moto sulla
via del ritorno.
"Grazie
a Dio i boia se ne vanno" dissi al mio superstite compagno.
E
quando il lontano rombo dei motori mi diede la certezza che i lurchi erano ormai
lontani, discesi cautamente dal nascondiglio, giù in chiesa e poi fuori
all'aperto.
Quale
spaventoso deserto! Non c'era più anima viva: soltanto le fiamme crepitavano
ancora qua e là con violenza in un mortale silenzio.
Guardo
intorno: canonica, case coloniche del beneficio parrocchiale, tutte le case del
Castello, di Ca' de' Ponzi, di Ca' di Ghedino, di Castagnola: un solo rogo! Un
solo rogo!
Andai
subito al Camposanto, alla piazzetta, al prato, alla vicina stradetta
ovunque un tragico e silenzioso campo di morti.
Impartii
l'assoluzione in massa e poi tornai in cerca di mia sorella e di qualche
superstite.
Passo
vicino alla stalla: vi vedo ancora il cavallo: rompo la serratura con un sasso e
lo conduco giù nel bosco. Poco lontano vi scorgo i bovini abbandonati a se
stessi. Odo gemiti. C'è dunque ancora qualche essere umano vivo? Avanzo e trovo
Gioacchino Scalabrini con la moglie Carolina Sajelli, mia sorella Caterina, la
domestica Caterina Pugnaghi, Maria Guglielmini e Maria Pancani.
Ed
intorno tutto è silenzio come per notte alta.
Un
pianto lungo ed inconsolabile.
NOTTE FOSCA E SINISTRA
"Trascorsi
la notte rischiarata dai bagliori sinistri degli incendi, lavorando
disperatamente per salvare dalle fiamme la parte bassa della Canonica.
Fu
quella una notte tremenda, con la triste visione dei morti, la amara coscienza
di avere perduto ogni bene, la cocente sete che tortura ed opprime.
Alle
prime luce dell'alba faccio la prima visita
in chiesa che fortunatamente è ancora in piedi.
Quale
spettacolo!
Qua
e là sono sparsi paramenti sacri; gli armadi sono sfondati, le cassette delle
offerte infrante e vuote.
Esco
e vedo la Canonica e le case di Castello in preda alle fiamme divoratrici.
Proseguo
e in Castello (località da non confondersi con il Castello di Costrignano del
1069, distrutto da Modena nel 1155) vedo giacere nel sonno eterno Giuseppe
Gugliemini presso la casa di Ildegonda Silvestri e, presso la propria
abitazione, giace Pia Sajelli di anni 40.
Mi
dirigo al campo della morte dove giacevano immobili, sfigurati, straziati
orribilmente, i migliori dei miei figli spirituali.
Uno
strazio indicibile mi strinse il cuore che soltanto per una grazia di Dio non mi
si arrestò nel petto.
Cinquantatré
cadaveri stanno nel campo della morte.
Ne
trascrivo il nome con religioso sgomento:
Abbati
Callisto di anni 60
E
poi da Costrignano furono qui condotti carichi di munizioni e qui trucidati:
Ed
ancora da Susano portati a Monchio e qui uccisi:
LO STRAZIO DELLE DONNE. ALTRE VICENDE DEL PARROCO
La
triste pena non era ancora finita.
La
domenica del 19 marzo 1944, San Giuseppe, le donne, vedove, madri, figlie nello
spaventoso stato d'animo della rapida sciagura, come sotto un'orrendo risveglio
di morte si buttavano sui corpi dei loro cari, i più martoriati dai proiettili.
Ed
urla di dolore disperato, senza conforto e senza confine, rompevano il silenzio
di Santa Giulia.
Il
20 marzo un'altra dolorosa vicenda si iniziava per il parroco di Monchio. E' il
ripetersi di una delle tante vicende di spavalderia, di ingiurie, di minacce che
caratterizzarono, quei giorni tristi e che erano la specialità di quella
esasperata violenza di governo.
Il
parroco fu minacciato di morte, lì, all'istante sulla soglia della sua chiesa
dopo la Santa Messa, se non avesse accondisceso a rivelare ad un ufficiale
repubblichino giunto lassù, i nomi di coloro che avevano vuotato l'ammasso del
grano.
Non
l'aveva dunque preso il reparto dell'Accademia Militare, nella sua sosta a
Monchio, il grano?
Ma
ogni spiegazione fu inutile ed il parroco dovette presentarsi lì a pochi
giorni, con un elenco di nomi...
Ancora
i tristi elenchi di nomi che sanno di guerra e di sangue!
Questa
volta però l'elenco... non era un elenco... perché il parroco vi aveva scritto
soltanto i nomi dei morti!
Fu
preso a viva forza, portato a Montefiorino. Di là venne inaspettatamente
lasciato in libertà con ingiurie innominabili.
E
nei giorni seguenti 22 e 23 marzo 1944, finalmente gli fu concesso di seppellire
i cadaveri!
E
poi di nuovo un'altra volta fu chiamato a Montefiorino ed imprigionato...
perché gli fu detto meditasse. E fu per giunta accusato di essere stato la causa della
strage. Anche questo dunque. Fino alla feccia doveva bere il calice amaro.
Già
la storia del nostro Risorgimento leggiamo che i parroci furono spesso il capro
espiatorio ed incolpevole della barbarie teutonica.
Nella
triste notte del carcere, la mano pietosa di una vecchia gli portò una coperta
ed un poco di cibo.
Ma
la via crucis non è ancora finita. Portato a Modena, ancora insultato e
percosso (durante il viaggio in camionetta fu tormentato con domande da una
donna in abito militare maschile), deve stare prigioniero otto giorni in città,
fino a che, per l'intervento del Vescovo, può ritornare al paesello, lassù...
al
luogo della morte del tanti suoi figli rimasti, per tanti giorni, e dopo simile
sciagura, privi anche del suo religioso conforto.
Il
vescovo riaccompagnò il buon prete alla sua parrocchia, alla rovina del suo
paese triste tramonto, triste commiato fu quello tra il prete ed il suo Vescovo,
dopo una minestra consumata poveramente come ai tempi dei primi cristiani, col
piatto sulle ginocchia, alla meglio addossati alle rovine della casa: di
fronte allo spettacolo delle case distrutte e con il cuore ancora
sconvolto dall'eco di un tumulto di morte.
Le
dolci campane di Santa Giulia, non suonarono quella sera, né mai più.
ALTRE VICENDE
Seguirono
altri rastrellamenti ed altre lotte.
Il
26 giugno 1944 i ”ribelli" occuparono Montefiorino e ne seguirono
rappresaglie atroci.
Incendi
a Saltino ed a Monchio, a Costrignano, a Susano, a Savoniero ed a Vitriola.
A
Monchio, ad un vecchio, venne fracassata barbaramente la testa e quindi fu
buttato in un pollaio: fu rinvenuto raggomitolato fino al raccapriccio
mostruoso!
Nel
settembre altri rastrellamenti a Morano, Casano, San Martino Vallata, Monchio,
Costrignano, Susano, Savoniero (luogo, nel 1652, devastato da una spaventosa
lavina), Vitriola, Palagano e Boccassuolo.
I
Tedeschi distruggono totalmente, rocca compresa, Montefiorino, da loro
riconquistata il 6 agosto.
Altre
angosce si presentavano: gli uomini innocenti dovevano ancora soffrire.
Dal
7 al 13 gennaio 1945 vasti e minacciosi rastrellamenti riportarono il terrore
nella zona di Santa Giulia. Un altro morto si aggiunse al triste elenco:
Filiberto Galanti.
Intanto,
il 9 gennaio, è fatto saltare il Santuario di Santa Giulia e più nulla vi
rimane.
Ora
pare proprio che al povero paesello sia stato tolto anche il respiro: nel
medesimo giorno un obice colpisce la chiesa di Monchio e ne sfonda una cappella.
Il
giorno di Pasqua, che cadde, nel 1945, il primo di aprile, ci fu un aspro
tentativo di conquista di Santa Giulia da parte delle truppe repubblichine. L'
assalto si rinnovò il 4 ed il 30 aprile sempre stroncato, con perdite da ambo
le parti, dai ”ribelli" lassù appostati.
Finalmente,
il 25 aprile, tutte le campane si rimandarono la lieta novella della pace. Ma
non fu lieta novella per gli abitanti di Santa Giulia. Essi avevano nelle carni
un ben crudo dolore e la allucinante visione di un cumulo di rovine e la
compagnia sempre presente di tante fosse di padri, di mariti, di figli, morti
innocenti, senza un perché, al cancello del cimitero vecchio.