La Val Dragone nella storia

Emigrazione

 


Album fotografico


Sommario

 

La tragedia di Palneca

 

 

Corsica, Cimitero di Gozzano dove sono sepolte le spoglie dei boscaioli di Piandelagotti

 

 

 

 

"O malaugurate corse montagne, né pioggia, né rugiada più scenda sopra di voi, chè nell'insidia avete tratto i nostri giovani forti e vigorosi. Lontana sia sempre da voi la scure della nostra valle che pur di tante foreste vi ha spogliato".

Con queste dure parole don Lunardi concluse il toccante racconto scritto sulla morte di dodici boscaioli della propria parrocchia, all'indomani della tragedia di Palneca, nella Foresta Verde della Corsica, avvenuta il giorno 8 febbraio 1927. Anni orsono, frugando in un archivio, mi capitò tra le mani proprio lo scritto in questione che propongo nella sua forma integrale per i lettori della "Luna" (escluse sia le foto delle vittime sia quelle dei sopravvissuti che sono di scarsa qualità). È la storia drammatica di venti lavoratori della val Dragone, tutti del casolare di Pian degli Ontani a Piandelagotti, emigranti stagionali boscaioli, dodici dei quali, non faranno mai più ritorno al paese natale.

Aldo Magnoni

 

 

don Lunardi

In memoria degli operai di Piandelagotti periti nel disastro della foresta verde 8 febbraio 1927

Lamberti Alberto, anni 19

Fontana Gaspero, anni 65, padre di

Fontana Antonio, anni 20

Lamberti Ernesto, anni 27, cognato di

Fontana Pasquale, anni 27

Lamberti Angelo, anni 23

Lamberti Pietro, anni 17, fratello di

Lamberti Leopoldo, anni 16

Zanni Pietro, anni 22

Lamberti Amedeo, anni 24

Lamberti Paolo, anni 48, cognato di

Vignaroli Pietro, anni 36

 

 

La foresta verde

Chi partendo da Zicavo, cantone corso in provincia d'Aiaccio, prende lo stradale che oltrepassato Cozzano, lascia sulla sinistra Ciamannacce e Palnèca, per poi a lunghe e serpeggianti giravolte attraversare l'alta valle del Taravo ed entrare, passata la foce, nelle opposte de' Ghisoni e Boco-gnano, resta ammirato, volgendo lo sguardo a N.E., alla vista di una smisurata foresta che per centinaia di Km. Adorna di faggi e di conifere secolari quell'alpestre regione.

Nella parte più bassa, l'abete dalle verdi foglie aciculari, fissando le sue radici in un terreno ricco di materiali organici, vi trova il modo di procurarsi un facile sviluppo e di fare sfoggio di una lussureggiante vegetazione. Più su, il larice dalle smisurate altezze, s'erge del confratello ancor più maestoso, esponendo alla violenza dei venti mediterranei, che ne fanno comodo trastullo, la sua chioma piramidale. Degli altri più rude, il faggio selvatico, l'amico dei nostri monti, sugli ultimi confini della flora arborea sfidando i rigori invernali e le più furiose burrasche, s'arrampica audace per le scoscese rupi fino alle estreme altezze che cede o alle verdi praterie, domini incontrastati dell'umile cervino, o alle brulle scogliere accessibili soltanto ai ferigni avvoltoi. Questa vasta regione boscosa che da circa 800 m. d'altitudine si eleva sin quasi ai 2000, è la Foresta Verde. Malaugurata foresta, fin qui nota solo all'industriale che v'à gettato su l'occhio avido di guadagno e all'infelice boscaiolo che il bisogno della vita v'à spinto, ma ora addivenuta purtroppo funestamente famosa pel grande disastro di cui è stata impassibile testimone e che è costato la vita a dodici disgraziati lavoratori di Piandelagotti, ridente paesello dell'alta valle del Dragone nell'Appennino modenese.

 

Necessità d'emigrare

È noto come la nostra popolazione montana, costrettavi da una dura necessità, alla quale non s'è trovato ancora il modo di riparare, debba periodicamente emigrare. Il caro costo della vita, le condizioni di miseria, la relativa gravezza delle imposte, la mancanza di lavoro retributivo nella nostra regione, l'insufficiente grado di produttività del terreno, fanno sì che per campare la vita si debba andare a cercare pane e lavoro dove pane e lavoro è possibile trovare. E da bravi figli del dovere vanno gli operai nostri, vanno sempre, vanno ogni anno finchè arride salute, finchè reggono le forze, finchè novelle braccia robuste non vengono a sostituire quelle già logore e rifinite abbisognose ormai di legittimo riposo.

 

Corsica e Sardegna, abituali luoghi d'emigrazione

Quando, risalendo indietro di mezzo secolo, le condizioni economiche della nostra valle, erano delle attuali più infelici (l'America à sollevato tante miserie) non si conoscevano che la Corsica e la Sardegna quali fonti di lavoro e di guadagno, ma più tardi si scoprirono altre vie più rimunerative ed ora, si può dire che non ci sono più Oceani dai nostri operai insolcati, non ci sono più terre che non conoscano o la scure del nostro boscaiolo o la mazza del nostro minatore. La Francia, la Germania, l'Africa, le Americhe e per fino il lontano Arcipelago australiano è percorso dai nostri lavoratori i quali ovunque tengono alto il nome e l'onore dell'operaio italiano. Però il vero ed abituale teatro di lavoro è sempre stato ed è tuttora il territorio delle due isole mediterranee, sia per la secolare consuetudine, sia per l'alto apprezzamento e l'attiva ricerca che là si fa degli uomini nostri, sia ancora per la relativa vicinanza dei luoghi che permette minori spese di viaggio e più facile ritorno in patria all'epoca degli agricoli lavori primaverili. Perché, vedete, i nostri lavoratori non sono solamente e semplicemente operai, ma sono anche agricoltori. Tutti attorno alla modesta casetta che nella tranquillità e nella pace alberga la famiglia, ànno un piccolo campicello che coltivano a cereali o a foraggi e al quale consacrano le loro cure estive e autunnali. Minimo è il suo grado di fertilità, da non compensare le fatiche del lavoro che richiede, ma tanta è l'affezione che gli portano che lo curano come se fosse della famiglia il provvidenziale sostegno. Invece il sostegno è tutto là in quelle braccia forti ed operose le quali, abbisognose di vita longeva, guai se anzi tempo s'infrangono.

 

Organizzazione del lavoro

Allora che le foglie dei primi geli ingiallite, staccandosi dal ramicello che loro diede la vita, cadono mollemente sull'erba e sopra vi si stendono in soffice strato, quasi per difenderla dalla neve che le pungenti brezze mattutine annunziano vicine, un caposquadra fra i più esperti e vecchi conoscitori di luoghi, di foreste e di persone, s'appresta a cercare per sé e per gli altri il necessario lavoro invernale. Conosciuto dai grandi assuntori di lavori, che bene spesso si prendono essi stessi la cura di venire a lui fin qui per le opportune trattative, con loro per bene stabilisce tutte le modalità del contratto: genere di lavoro, località, rifornimento e costo dei viveri, entità e tempo di pagamento etc. Fissate tutte queste cose, non resta che fare gli ultimi preparativi e attendere il giorno della partenza. Questa ordinariamente avviene nella prima metà di novembre. Allora dato l'addio ai parenti e agli amici in fila indiana, portando sulle spalle un fagotto che contiene pochi panni e gli istrumenti del mestiere, si vedono salire taciturni e a capo chino l'erta appennina, seguendo il sentiero che loro accorcia la via alla stazione ferroviaria più vicina. Di là il treno li porta veloce al porto d'imbarco e il piroscafo sbuffante li approda all'altra sponda, a Bastia, se la Corsica è la meta, per raggiungere poi attraverso a lunghe e tortuose vie il duro campo della lotta invernale. Arrivati, primo pensiero è la costruzione della baracca ove ripararsi dalle intemperie e ove ritemprare durante la notte in un sonno ristoratore le energie disperse nella diuturna attività laboriosa. Fissato d'accordo con l'autorità forestale il luogo di collocazione, la scure comincia tosto la sua opera demolitrice e ben presto sotto i suoi rudi colpi cadono i primi tronchi che trasformati in colonne, in travi e in tavole forniscono pel baraccamento il materiale necessario. Piantate solidamente nel terreno le robuste colonne, vi si posano in senso trasversale le lunghe travi e sopra e tutt' attorno assicurate da chiodi, si fissano le tavole che formano il tetto e le pareti laterali. Questo lavoro richiede circa una diecina di giorni, durante i quali ogni sera o scendono al paese se non è eccessivamente lontano, o ricorrono a qualche cantoniera che eventualmente si trovi nei dintorni, o chiedono benigna accoglienza notturna a qualche ospitale caverna. Finito l'esterno lavoro, si preparano internamente i letti. Noi li chiamiamo così, ma la denominazione è tanto impropria che gli stessi costruttori non hanno il coraggio di usarla e li dicono rapazzuole. Sono cuccette imbottite di secche erbe palustri, larghe mezzo metro e lunghe appena quanto richiede la statura di chi deve adagiarvisi. Pare che in questi ultimi tempi le condizioni di notturno riposo siano alquanto migliorate perché è concessa la branda e si fa meno avarizia di spazio. Comunque però non si esce dall'ambito del giaciglio della dura miseria. In mezzo al locale sta il focolare, la cui fiamma, vigile scolta notturna, si offre a cortese fumatrice del freddo, che nonostante il contrasto che gli oppongono i muschi copiosamente e strettamente incastrati nelle fessure delle sconnesse pareti, tenta spietato continue entrate furtive. Più cortese e più compassionevole il fumo se n'esce tranquillo per un' apposita apertura sulla tettoia, a meno che non trovi contrasto in rabbuffi ventosi che lo ricacciano noioso nell'interno del locale. La provvista dei viveri ordinariamente si fa al paese più comodo, che talora dista tre e quattro ore di cammino. Una volta la polenta di frumentone o di castagne, con poco formaggio per companatico era l'ordinario cibo quotidiano, ora si fa uso anche della minestra e al pasto frugale generalmente non manca un bicchiere di vino. Per la preparazione delle vivande viene scelto quello fra i compagni che non offre qualità culinarie che siano in perfetta antitesi con l'arte che gli viene affidata.

 

Dura vita di sacrificio

La vita di sacrificio che conducono questi disgraziati figli del dovere, ad essa dal bisogno condannati, non è abbastanza compresa ed apprezzata specialmente da chi abituato a vivere nei comodi e nelle agiatezze non può farsene un concetto giusto ed adeguato. Già il distacco e la separazione che ogni anno si rinnova, dal paese natio e dalla famiglia, è causa di dispiacere e di dolore: la lunghezza del viaggio è anch' essa un disagio non indifferente: la vita di lavoro poi porta seco preoccupazioni, privazioni, sofferenze, stenti da farsene un' idea solo chi à avuto la disgrazia di provarli. Durante il giorno sempre là curvi sul lavoro, sia che il sole mostri benigno il suo sguardo, sia che, quasi sdegnato, rifugga, e chiamate a raccolta le dense nubi d' acqua e di neve faccia copioso regalo. Sempre là col pericolo continuo che qualche pianta non segua nella caduta la traiettoria che l'arte boscaiola le assegna e li schiacci sotto il peso del suo tronco colossale. Sempre là colle mani e coi piedi bagnati e intirizziti dal freddo, o a maneggiare la scure, o a tirare la sega dal primo apparire dell' aurora alle ultime penombre crepuscolari, che foriere di più tetra oscurità li richiamano al miserrimo abituro ove avrebbero diritto di trovare un men duro giaciglio da riposare le membra stanche e spossate.

Gloria a te o fiero lavoratore dei boschi.

Tu sei l' orgoglio, tu sei la forza della nazione, che della tua vita laboriosa, onorata, nell' ora dei grandi sacrifici sul tuo forte braccio può fare il più sicuro affidamento. Sorga intanto chi di te mosso a compassione, ti riconosca il diritto a una vita meno misera e meno infelice.

 

Il grande disastro

L'autunno del 1926 era già da parecchio inoltrato e la neve aveva già fatto le sue prime comparse sulle vette appennine, quando una squadra di venti boscaioli, sotto la guida del caporale Lamberti Francesco, doveva partire per la Corsica e portarsi nella Foresta Verde al taglio dei larici alle dipendenze della Ditta Tollinchi di Aiaccio.

Prima della concessione dei passaporti, che nonostante solleciti sia telegrafici che a mezzo di persone appositamente alla Prefettura inviate, subivano ritardi: poi un'abbondante caduta di neve che chiudeva le strade, e accompagnata da una forte bufera rendeva il valico appennino non solo malagevole, ma anche pericoloso, pareva che, conscii di ciò che doveva avvenire, assieme congiurassero perché la partenza non si effettuasse e fosse risparmiato a quella compagnia l'orribile eccidio che l'attendeva. Ma purtroppo vennero i passaporti, purtroppo la robustezza e la forza di volontà dei parenti prevalsero sulla furiosa violenza degli elementi, per loro bene tanto feroci quel giorno, e la partenza avvenne e il giorno 11 dicembre raggiunsero l'alpestre foresta che doveva essere l'altare del loro sacrificio, la loro tomba.

Ad un'altezza sul livello del mare di circa 1500 m. nel bel mezzo della foresta annosa si prepararono tosto l'invernale rifugio a 3 km. e mezzo dalla più vicina abitazione "Lo Scrivano" e a 6 km. dal più vicino paese "Palneca". A poca distanza dal costrutto ricovero s'ergono al cielo alcuni larici maestosi; si sa che costituiscono un grave pericolo, perché un vento impetuoso (e il vento corso è noto per la sua violenza) li può rovesciare sul misero tugurio, ma non portano il contrassegno di loro condanna, e non è lecito tagliarli. Si cerca di far persuase le guardie forestali della opportunità, della necessità di togliere quel pericolo, motivo di continua trepidazione, ma esse sono inflessibili e minacciano di espellere tutti dal bosco se alcuno s'azzarda di abbattere quelle piante. Rassegnati, s'affidano alla provvidenza di Dio. Alla fine di gennaio, nonostante che la stagione si sia costantemente tenuta cattiva e che d'acqua e di neve non sia stato avaro il cielo, una buona parte del lavoro è stata compiuta, e numerose piante giacciono distese sul bianco suolo, recise dalla tagliente accetta dei boscaioli. Ma ormai la neve che quasi ogni giorno s'ammucchia in novelli strati sul suolo, à raggiunta un'altezza tale che il taglio a norma delle leggi forestali si è reso impossibile. Già uno degli operai, anche per sopravvenuta indisposizione (oh fortunata indisposizione), ma soprattutto perché seccato dalla perfida stagione, à abbandonato il bosco, ed è ritornato alla famiglia. Gli altri, considerata l'inopportunità di restarsene lassù inoperosi, pensano di chiedere al padrone di essere trasferiti in località più bassa, ove la mancanza o almeno la minore abbondanza di neve permettesse loro di lavorare. La domenica 6 di febbraio partono quindi il caposquadra Lamberti e l'operaio Zanni Rinaldo e si portano a Cozzano di dove telegrafano pel trasferimento al padrone che risiede a S. Maria Siche. La risposta, non si fa attendere a lungo, essendo affermativa, lieti s'accingono a far ritorno alla baracca, a portare ai compagni la buona novella che possono senz'altro lasciare quell'orrida Siberia per recarsi in località più ospitale. Fortuna vuole che lungo il percorso s'incontrino in un amico il quale li invita a fermarsi in casa sua. Le insistenze sono così vive e così cordiali che devono cedere e rimettere la partenza al mattino seguente. Ma al mattino seguente nevica a dirotto, si intuisce che su in alto infuria la bufera: mettersi in viaggio, se anche possibile, non sarebbe prudente. Attendono ancora sperando che il mal tempo conceda un po' di tregua. Mentre in casa amica passano la giornata in lieta conversazione, lassù alla foresta, i compagni, prigionieri della neve, stanno raccolti nell'oscuro e ristretto locale attorno al fiammeggiante fuoco, il quale non facendo risparmio di legna, di cui c'è larga dovizia, disimpegna in un tempo il duplice ufficio di fornitore di luce e di calore. Ad ora piuttosto tarda si sdraiano sulle brande, un pensiero a Dio e alla famiglia e s'abbandonano al sonno. Fuori intanto la neve continua a scendere in gran copia, portata lontano dal vento che comincia a farsi piuttosto impetuoso, senza però destare soverchia impressione. Verso le 3,30 del martedì 8 di febbraio, improvvisamente si scatena, rapido come la folgore, un terribile e furibondo ciclone accompagnato dal rombo feroce del tuono e dai lampi frequenti e paurosi che rompono il buio tetro della triste notte. Tutto a un tratto s'ode uno strepitoso fragore, e una pianta enorme, spezzata dal turbine spaventoso, si rovescia sulla misera baracca che resta sepolta, squartata, schiacciata. Come avvenisse non è facile intuirlo, ma uno dei disgraziati abitatori di quel tugurio, certo Stefani Giuseppe, da una potente forza viene lanciato lontano colla sua branda (trovata poi a 30 metri di distanza) restando sbalordito sì, ma incolume sulla neve. Brancolando nel buio e valendosi dei bagliori dei lampi, ritorna verso la baracca e scorta ivi la colossale pianta che preme sul povero rifugio, intuisce lo spaventevole disastro e cade accasciato dal dolore.

Ma richiamato dalle grida affannose dei compagni che invocano soccorso, si rialza, raccoglie tutte le sue forze e si pone all'opera di salvataggio. Dopo intenso e faticoso lavoro riesce a scoprire un compagno: Vignaroli Domenico. Anch'egli è miracolosamente incolume, ma un pesante tronco lo tiene per una gamba avvinto e immobilizzato. Lo Stefani si prova a rimuovere quel peso, ma i suoi sforzi riescono inefficaci. Allora, mentre il prigioniero, sotto l'impressione dello spavento, invoca pietoso una scure che gli recida la gamba e con voce rotta dal pianto chiama, ma invano, il fratello, che morto gli giace vicino, egli, chiamato da altre voci di dolore e di pianto, si prodiga fino allo spasimo per rimuovere il materiale ostruttore e finalmente dopo sforzi inauditi può scavare altri due compagni: Fontana Giuseppe che è ferito ad un braccio e a una gamba e Lamberti Giuseppe che presenta una larga ferita alla fronte ed à spezzata la clavicola. Anche questi con voce affannosa chiama insistentemente il fratello Ernesto che gli dormiva accanto, ma pur esso tace, chè la morte gli ha tolto colla vita la favella. Ad uno ad uno e a gran voce si chiamano per nome anche tutti gli altri, ma in quel cimitero non c'è più una voce se pur lamentevole che risponda. In preda (è agevole immaginarlo) alla più profonda costernazione, visti inutili ulteriori sforzi di salvataggio, chè troppo colossale e reso impossibile dalle condizioni atmosferiche, è il lavoro che si richiede, liberato il prigioniero dal pesante tronco sulla gamba, risolvono di scendere e ripararsi e a chiamare soccorso al vicino "Scrivano" ove abita una famiglia corsa da loro ben conosciuta. Ma partire in quello stato d'animo e in quelle condizioni atmosferiche pare follia. Il freddo è intensissimo, la bufera seguita ad imperversare furente, la neve attraverso la quale devono per tre Km. e più aprirsi il varco à raggiunto l'altezza di tre, di quattro metri ed essi scalzi e quasi ignudi, perché in quello stato colti dal disastro nel sonno, si trovano in una depressione d'animo che affievolisce, annichila ogni sforzo ed ogni energia. È follia partire, ma restare è follia ancor maggiore; restare vuol dire morire in breve ora di inevitabile assiderazione. Partono quindi e partono carponi, perché non è possibile altro modo d'andare, armate le mani di tavolette per essere un poco meglio sostenuti dalla neve, e solo dopo otto ore di continuo, faticoso cammino (con quali sofferenze e stenti, specialmente da parte dei feriti, è facile immaginare), raggiungono "Scrivano". Ricevute le più amorevoli cure da quella buona famiglia che con sentimenti di profondo cordoglio à appreso la triste notizia, questa viene presto divulgata ai vicini paesi, ovunque s'organizzano squadre di soccorso. Si vorrebbe salire subito al luogo del disastro (chi sa ci possono essere ancora dei vivi che attendono di essere salvati), ma si trova un ostacolo insormontabile nella bufera che seguita ancora furibonda e nella quantità di neve che ora à raggiunto cinque metri di altezza. Solo al giovedì mattina, concessa dal mal tempo un po' di tregua, è resa possibile l'ascesa. Degli italiani che si trovano al lavoro in quelle località nessuno manca, a loro si aggiungono molti corsi, che feroci nella vendetta, hanno nei casi di dolore un cuor grande e generoso, e più di 300 uomini armati di pali salgono faticosamente l'erta della nefasta foresta. Giungono sul posto verso il mezzodì, ma della baracca non c'è più traccia alcuna. Né è dato sapere con precisione ove sia perché le piante dal ciclone a migliaia divelte, e l'enorme massa di neve che tutto ricopre, ànno cambiato configurazione a quella triste località.

Intensamente, ma senza risultato si lavora per tutto il giovedì; al venerdì mattina finalmente si scopre la sciagurata capanna. Strumenti di morte, due piante enormi vi giacciono sopra e spietate anche s'oppongono a ridare i corpi delle vittime che ivi ànno immolato. A fatica sì, e con sforzi enormi, ma anche quei colossi poderosi vengono rimossi e l'estrazione di cadaveri macabra e dolorosa incomincia. Al sabato mattina ne sono stati disseppelliti dodici, quasi tutti irriconoscibili. Non resta a trovarne che uno solo, un giovanotto di 22 anni a nome Trogi Rocco. Il lavoro prosegue febbrile e alle 11 sotto un mucchio di tavole, anche l'ultimo disgraziato è tolto dal suo sepolcro. Ha le mani e i piedi gelati, è in condizioni estremamente pietose, ma vive ancora. Come si è salvato? Come ha potuto vivere per 56 ore in quella tomba? Racconta egli stesso che ha l'impressione di aver sentito nel sonno un grande fracasso; svegliatosi di improvviso si è sentito premere e quasi schiacciare sulla branda da un peso che gli soprastava. Chiama i compagni, ma nessuno gli risponde. Sentendosi soffocare, gli sovviene d'aver in tasca un coltello; trova il modo di estrarlo e di tagliare con esso la branda: nel vuoto sottostante un angusto capannello lo protegge e lo salva. Fa sforzi per aprire un varco, ma riescono vani. Passano intanto le lunghe ore e in quella solitudine ristretta ed oscura, in quel silenzio sepolcrale, non sa rendersi conto di ciò che sia avvenuto. Crede che i compagni siano scappati e l'abbiano abbandonato. Invoca l'aiuto del cielo, chiama il babbo e la mamma lontani, poi, colto dalla disperazione, cerca il coltello che gli è stato provvidenziale salvatore, per farne il suo carnefice, recidendosi la gola e affrettando la morte che ormai prevede certa e terribile. Ma non gli riesce più di trovare quell'arma. In un'angoscia atroce spinto e quasi privo di sensi, sente ormai venirgli meno la vita, quando in tempo giunge a salvarlo l'opera delle squadre di soccorso. Finita la pietosa opera di disseppellimento alla quale, degne del maggior elogio, ànno assistito parecchie autorità francesi con a capo il Prefetto d'Aiaccio che è stato largo di conforto e di coraggio coi poveri superstiti, si procede al trasporto dei cadaveri fino a Gozzano.

Alla domenica mattina nella Chiesa parrocchiale hanno luogo i solenni funerali. Una folla enorme, accorsa dai paesi limitrofi, che porta impressi nel volto i segni del dolore e della costernazione, assiste riverente alla mesta cerimonia. Esperite le esequie di rito, il parroco locale dice belle e commoventi parole; indi fuori della Chiesa, fatte sostare le bare, il Prefetto d'Aiaccio pronunzia un commoventissimo discorso che strappa a tutti le lagrime, e vinto egli stesso dalla commozione, stringe affettuosamente la mano ai superstiti che piangono a dirotto. Ma i nostri Consoli di Bastia e d'Aiaccio dove sono? Essi soli ignorano l'immane sciagura che Francia e Italia à commosso? Essi soli non sentono il bisogno e il dovere di accorrere al luogo del dolore per portare agli infelici dalla morte risparmiati, una parola di coraggio e di conforto? I poveri morti vengono intanto portati al loro destino, e una mesta croce, simbolo di fede e di dolore, nell'umile cimitero di Cozzano, sormonta il sepolcro ove i loro corpi dormono insieme il sonno della pace.

Una lapide funerea ne porta scolpiti i nomi: Lamberti Ernesto, Lamberti Leopoldo, Lamberti Pietro, Lamberti Alberto, Lamberti Amedeo, Lamberti Paolo, Lamberti Angelo, Fontana Pasquale, Fontana Gaspero, Fontana Antonio, Vignaroli Pietro, Zanni Pietro.

 

La notizia al paese natio

A Piandelagotti le prime notizie della catastrofe vaghe e laconiche giunsero la domenica 13 febbraio. I giornali accennavano a tempeste di neve furiosamente abbatutesi sulle montagne della Corsica e il Corriere della Sera specificava che nella Foresta Verde 13 operai italiani erano periti sotto il crollo della baracca ove erano rifugiati. Naturalmente questa notizia gettava nell'animo di tutti i paesani un senso di affannosa trepidazione per la sorte dei nostri operai che si sapeva essere al lavoro proprio in quella nefasta foresta; ma restava sempre la speranza che o la notizia fosse infondata o che la triste sorte fosse toccata ad altri disgraziati. Nell'ansia crudele si visse fino al martedì sera quando da S. Maria Sichè un telegramma del padrone Tollinchi annunciava il disastro in tutta la sua cruda e terribile realtà. È impossibile descrivere le scene strazianti all'annunzio della notizia ferale. È un pianto a dirotto ed angoscioso che s'ode da ogni parte: genitori che piangono i figli: figli che piangono il padre: spose che piangono i mariti, ed è un pianto affannoso, un pianto straziante, un pianto che lacera il cuore. Nei casolari della desolazione è un continuo accorrere di buone persone per portare una parola di coraggio e di conforto, ma l'amarezza del dolore è così grande che pare che a coraggio e a conforto non si possa dare ricetto.

Piangete, piangete pure o sventuratissime famiglie, chè di piangere avete ben ragione. Col padre, col figlio, collo sposo avete perduto non solo l'oggetto dei vostri affetti più cari, ma avete perduto anche il vostro sostegno, chi vi provvedeva del necessario pane quotidiano. Chi penserà ora a voi, o infelici genitori, cui nella vecchiaia la triste sorte ha riserbato una sì grande sventura? Chi penserà a voi, o spose sì precocemente vedovate? Chi penserà a voi, o innocenti orfanelli, soli fra tutti cui spunti ancora sulle labbra il sorriso, perché soli inconsci della sciagura che vi ha colpito? O malaugurate corse montagne, né pioggia, né rugiada più scenda sopra di voi, chè nell'insidia avete tratto i nostri giovani forti e vigorosi.

Lontana sia sempre da voi la scure della nostra valle che pur di tante foreste vi ha spogliato. E a voi, o martiri del lavoro e del dovere, il nostro commosso e riverente saluto, per voi la nostra fervida preghiera di pace. Che Iddio benigno ve la conceda nella patria beata e sia generoso di conforto alle vostre famiglie desolate.

 

I sette superstiti

Stefani Giuseppe, il salvatore; il caposquadra; Lamberti Francesco che nel disastro ha perduto due figli; Fontana Giuseppe; Lamberti Giuseppe che ha perduto nel disastro un fratello e un cognato; Vignaroli Domenico che ha perduto un fratello; Zanni Rinaldo che ha perduto un fratello e Trogi Rocco, anni 22, rimasto sepolto sotto la neve 56 ore.


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